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Teatro in classe: gli studenti "critici" per un giorno

Sulla scia delle positive esperienze degli scorsi anni, ritorna anche nella stagione 2017/2018 Teatro in Classe. Il progetto, realizzato in collaborazione con Il Resto del Carlino, offre agli studenti delle Scuole Medie Superiori di Modena e Provincia l’opportunità di trasformarsi per un giorno in critici teatrali. Le recensioni e le rubriche saranno valutate da una giuria di esperti che assegnerà importanti premi e riconoscimenti agli elaborati ritenuti migliori.
Per partecipare al concorso: 059.2136055  teatro.ragazzi@emiliaromagnateatro.com

Premiazione del concorso “Teatro in classe”
Martedì 29 maggio ore 18.30 // Teatro delle Passioni

IL LIBRO DI GIOBBE

IL MATCH PIÙ IMPORTANTE: QUELLO DELLA VITA
La recensione degli studenti dell’Istituto Volta di Sassuolo

Riusciresti ad accettare le disgrazie della vita come ne accetti le gioie? Questo è uno dei tanti interrogativi che il regista Pietro Babina e il drammaturgo Emanuele Aldrovandi, vogliono porre allo spettatore attraverso l’opera, che ripropone in chiave moderna “Il Libro di Giobbe”.
Il sipario si apre con una partita di tennis tra Giobbe, interpretato da Leonardo Capuano, e un suo avversario, l’attore Andrea Sorrentino. In seguito alla sconfitta, Giobbe rievoca in sogno alcuni ricordi dolorosi relativi all’incidente in macchina che ha determinato la morte del figlio, portandolo ad essere impulsivo e rabbioso non solo verso lo sfidante, ma anche nei confronti della giornalista, della moglie, del figlio e dell’amico, interpretati rispettivamente da Barbara Chichiarelli, Giuliana Vigogna, Alessandro Bay Rossi e Fabrizio Croci.
Durante lo spettacolo si alternano sulla scena la rappresentazione della vita reale del protagonista e un dialogo onirico tra due personaggi (le voci della sua coscienza?).
Il palco è allestito in modo da rappresentare un campo da tennis, mentre sullo sfondo viene proiettato un videogioco, che aggiunge alla rappresentazione un livello di interpretazione.
La recitazione è accompagnata da giochi di luce che trasmettono una sensazione di angoscia e tensione, mentre i momenti onirici sono accompagnati da un suono a bassa frequenza, che aiuta lo spettatore ad immergersi nella dimensione eterea del sogno.
Tutta la rappresentazione si basa su un parallelismo tra il Giobbe “Biblico”, un uomo benestante che mostra fedeltà a Dio nonostante le enormi sofferenze a cui viene sottoposto, e quello “moderno”, uno sportivo al tramonto della sua carriera, costretto a fare i conti con il dolore degli avvenimenti passati.
«Ho sempre pensato ci fosse una logica, i giusti vengono ricompensati, i cattivi annientati»: da queste parole si evince la psicologia che guida il protagonista durante il corso della vita. Come nell’Antico Testamento, ogni pena è commisurata alla colpa, e di conseguenza ogni successo è frutto di una virtù. Nel momento in cui Giobbe, nonostante l’ottima prestazione, perde una partita contro un avversario molto più giovane ed inesperto di lui, la fiducia in una giustizia universale crolla. Il match diventa, quindi, una metafora della vita. E immeritata la sconfitta a tennis, ingiusto il dolore nell’esistenza dell’uomo.
L’interrogativo di Giobbe sull’origine della sofferenza sembra trovare una possibile risposta nelle parole del rivale, con la cui filosofia di vita e di gioco il protagonista è in netto disaccordo: giocare senza pensare. Poche semplici regole, come fossero la versione moderna dei Dieci Comandamenti.
Giobbe non riesce ad abbracciare questo sistema di pensiero, ma la sua propensione a far coincidere colpa e sofferenza finisce col logorarlo. Il grande interrogativo rimane senza risposta.
Incapace di credere alla filosofia dello sfidante e avendo perso la fiducia nella propria, il Giobbe moderno, a differenza del Giobbe biblico, si ritrova sopraffatto, come in mezzo ad un uragano, e finisce con l’arrendersi alla sofferenza.
Sebbene l’idea che il dolore e la gioia siano in tutto e per tutto conseguenza delle azioni dell’uomo -e non invece puri “fatti”, come suggeriva il rivale- possa avere un effetto consolatorio, questa stessa idea sembra condannare l’uomo alla responsabilità, e quindi alla (al senso di) colpa.
Accettare la sofferenza come si è accettata la gioia è quindi forse l’unica via per giungere all’accettazione del paradosso della vita.

ANCHE LE EMOZIONI POSSONO UCCIDERE
La rubrica degli studenti dell’Istituto Volta di Sassuolo

Ci sono momenti, nella vita, in cui le emozioni negative prevalgono sulla ragione: un marito geloso finisce con l’uccidere la propria compagna, una ragazza vittima di bullismo si suicida. Tutti questi sono “momenti uragano”: momenti in cui sono le emozioni ad agire e a guidarci.
Nell’opera teatrale “Il Libro di Giobbe” il protagonista si ritrova sopraffatto da uno di questi momenti: Giobbe crolla e arriva a compiere un gesto di drammatico autolesionismo.
Bisognerebbe trovare la forza di reagire alle situazioni di disagio profondo, trasformando il dolore in un’occasione di rinascita. Un gesto di rispetto verso noi stessi e verso coloro che sono al nostro fianco e che da noi posso trarre forza e ispirazione.
La ragazza vittima di bullismo che si ribella, la compagna che trova il coraggio di denunciare il marito: ogni persona che riesce a trovare nel profondo del proprio essere la forza di reagire può diventare un esempio per gli altri.
Non sono azioni solo per noi stessi: possono diventare un riferimento per tutti coloro che vivono la stessa situazione, per tutti coloro che hanno bisogno di un faro. I “momenti uragano” non devono portarci all’autodistruzione.
La collera, la rassegnazione, la disperazione: nessuna di queste reazioni rappresenta una soluzione al dolore. L’uomo può e deve trovare trovare dentro di sé e nei propri affetti la forza per reagire e rinascere.

Classe 5D I.I.S. Volta di Sassuolo
Federico Bergonzoni, Gianluca Depalma, Vincenzo Galati, Manuel Romano, Luca Saccone

 

VA PENSIERO

L’AEMILIA NON PIU’ FELIX DEL TEATRO DELLE ALBE
La recensione degli studenti del Liceo Formiggini di Sassuolo

A settembre di quest’anno nell’ambito della maratona teatrale “Ritratto di una Nazione”, andata in scena al Teatro Argentina di Roma, Antonio Calbi e Fabrizio Arcuri hanno chiamato a rappresentare l’Emilia-Romagna Marco Martinelli del Teatro delle Albe, che ha scelto di raccontare in trenta minuti la storia di Donato Ungaro, vigile di Brescello, che quindici anni fa fu licenziato per aver denunciato infiltrazioni ‘ndranghetiste.
Martinelli mette di nuovo sotto i riflettori questa storia con una produzione ERT –Teatro delle Albe.
In un paese e in un’epoca che non vengono specificati, ma che piano piano assumeranno i tratti della Pianura Padana reggiana, malviventi calabresi, che ad un certo punto scopriremo essere di Cutro, spadroneggiano in un paese governato da un sindaco, la Zarina, tormentata dal ricordo del padre morto da cui controvoglia ha ereditato il potere.
Un vigile urbano, tornato al paese natio, ormai irriconoscibile, si imbatte progressivamente in episodi di schiamazzi notturni, plateali infrazioni del codice stradale, edilizia abusiva, pizzo, scempio del territorio, occultazione di rifiuti tossici che causa tumori. Distrutto da questa climax agghiacciante, decide di denunciare. Per lui, che è anche giornalista, il diritto alla libertà di parola è irrinunciabile. Dopo minacce velate e persecuzioni arriva il licenziamento.
Una scenografia scarna da tragedia greca: una pedana che con pochi oggetti di scena, diventa di volta in volta piazza, ufficio, argine, villa.
Un coro in nero che pare comparire e scomparire grazie a luci sapientemente direzionate dietro a uno schermo mobile su cui vengono proiettati i nomi dei luoghi e immagini altamente suggestive, come una simbolica colata lavica che sembra progressivamente sommergere il coro.
Immensa Ermanna Montanari, che è riuscita a suscitare empatia per il personaggio di fatto spregevole del sindaco, donna schizofrenicamente divisa tra il rigetto del potere, simboleggiato da notturni conati di vomito, e la freddezza con cui tratta con le ‘ndrine.
Antonio Dragone, il malavitoso, unico nome reale della rappresentazione, è il primo boss cutrese giunto in Emilia al confino. Lavorano con lui commercialisti e imprenditori emiliani “quasi onesti”.
Vittime della camorra prima, della ‘ndrangheta poi, ma anche della politica e del pregiudizio razzista (“i meridionali vedono la mafia ovunque” dirà loro il sindaco) una giovane coppia di gelatai che fuggirà all’estero.
Insieme a loro, a dar voce al popolo, un paesano interpretato da un attore del teatro dialettale, che alleggerisce il racconto con la sua ossessione per l’invasione delle nutrie, metafora della mafia e il coro Bonci di Cesena, che canta a bocca chiusa brani da Traviata, Rigoletto, Forza del destino e a voce piena il coro O Signore, dal tetto natio da I Lombardi alla prima crociata e Va pensiero con tutto il pubblico.
Per tre volte l’azione si ferma, gli attori si spogliano dei costumi e con un recitativo riflettono, come nel brechtiano Coro dei Sorvegliati speciali, elenco spietato di nomi di mafiosi e reati commessi in Emilia Romagna.
Nel monologo Le tavole della legge, episodio di vera e propria rottura dell’illusione scenica, Montanari si toglie la maschera e chiede al pubblico: “Noi non delinquiamo e non uccidiamo per paura delle sanzioni o perché abbiamo -scolpite nel cuore- leggi morali?”

VERDI COPRE GLI SPERI: LA MAFIA E’ QUI TRA NOI
La rubrica degli studenti del Liceo Formiggini di Sassuolo

Con lo spettacolo Va Pensiero, Emilia Romagna Teatro Fondazione torna a promuovere un teatro civile e di denuncia, avvalendosi della lunga esperienza in questo campo del Teatro delle Albe. In una regione in cui si continua a pensare che la mafia sia un problema “dei meridionali”, utilizzando notizie di cronaca, è importante conoscere la storia dell’insediamento della ‘ndrangheta a partire dal confino dei primi mafiosi come Antonio Dragone, fino ad arrivare all’esplosione mediatica del Processo Aemilia, primo processo di mafia nel Nord Italia.
Alla fine dello spettacolo, che ha raccontato in modo spietato come, senza che nessuno se ne accorgesse, la mafia sia penetrata e si sia radicata in Emilia-Romagna, coro, attori e pubblico commossi hanno intonato Va Pensiero, l’effetto catartico ci rincuorava.
La musica di Verdi ha coperto il rumore degli spari che nel frattempo a Reggiolo, a soli 40 chilometri dal teatro, freddavano a bruciapelo il cutrese Francesco Citro.
Nel frattempo Marco Martinelli, il regista, saliva sul palco dello Storchi e abbracciava, fra applausi scroscianti, Donato Ungaro, colui che ha avuto il coraggio della denuncia.
A Reggiolo nessuno ha visto o sentito niente.

Classe 3A Liceo Classico, A.F. Formiggini 
Rosagiulia Bertoli, Sofia Bertolini, Elisabetta Caserta, Cecilia Cavani, Federica Chiriatti, Chiara Ferri, Martina Leva, Tommaso Notari, Giulia Pasquinelli, Giorgia Ruini, Emanuele Santomauro, Alice Tagliatini, Eleonora Ventura, Eleonora Vivi

FANTASMI

QUANDO RESTA SOLO IL SUPERFLUO
La recensione degli studenti del Liceo Venturi

Non vi è distinzione tra platea e palcoscenico.
Il pubblico è accolto al centro della scena: modo pirandelliano di aprire lo spettacolo, per far immergere gli spettatori direttamente nel contesto misterioso della storia, lasciandoli perplessi sul ruolo che a loro spetta: attori, fantasmi o pubblico?
Si apre così la regia di Nanni Garella, che torna al testo con cui era iniziata, sedici anni fa, la sua collaborazione con Arte e Salute onlus rimettendo in scena Fantasmi. Il dramma, pubblicato nel 1931 sulla rivista “Nuova Antologia”, è il primo atto dell’ultima opera teatrale di Luigi Pirandello, I giganti della montagna, rimasta incompiuta.
I protagonisti della vicenda sono: il Mistero, che vive nell’incertezza di non saper distinguere la realtà dalla fantasia, il dualismo tra l’Essere, ovvero ciò che conta, l’Impalpabile, l’Invisibile, in altre parole lo Spirito e l’Anima, e l’Apparire visto attraverso un corpo e una maschera.
L’ambiente grigio e spoglio dell’allestimento scenico contrasta con l’estrema forza espressiva degli attori, i pazienti psichiatrici di Arte e Salute, ormai divenuti quasi dei professionisti. La loro potente sensibilità è uno dei punti di forza dello spettacolo e permette allo spettatore di comprendere e immedesimarsi nelle sofferenze vissute dai personaggi, nei loro fantasmi, creati e superati grazie alla potenza dell’immaginazione.
La trama è semplice e insieme complessa perché ambientata in un tempo mitico, in un altrove non precisato chiamato Villa Scalogna, dove Cotrone e gli Scalognati, primi a comparire in scena, hanno scelto di esiliarsi, in un’atmosfera fantastica nella quale si è “privi di tutto ma con tutto il tempo per noi”, e dove essi fuggono scegliendo l’esclusione dalla società e dal mondo, così che la vita appaia loro come un sogno, dove ognuno è accettato per quello che è.
La loro prima entrata in scena è accompagnata da un sottofondo musicale, ritmato e dissonante, e da un gioco di luci che crea smarrimento e stupore, dando il via alle “apparizioni” all’interno della Villa.
A rompere l’apparente equilibrio trovato dagli abitanti di Villa Scalogna arriva la Compagnia teatrale della Contessa Ilse alla ricerca di un rifugio e di un pubblico davanti al quale inscenare “La Favola del Figlio cambiato”, opera dello stesso Pirandello (in Fantasmi, che appartiene all’ultimo periodo del teatro di Pirandello, permangono elementi della sua rivoluzione metateatrale).
Gli Scalognati in un primo momento tentano di spaventare i teatranti con scariche di lampi e rumori rutilanti di tuoni, creati dagli stessi attori, ma non avendo avuto successo decidono di invitarli a rimanere nella Villa. Restando lì vivrebbero al di fuori della realtà, potrebbero mettere in scena i loro Fantasmi; ma la Contessa, malinconica e drammatica, vuole portare il Teatro tra la gente, non recludendosi nell’illusione. Cotrone cercherà di convincere la Contessa a rimanere, esponendole i vantaggi del vivere in un mondo fatto di sogni e visioni, mentre lei ribadisce di voler rimanere nel quotidiano.
L’interpretazione degli attori fa emergere l’originalità profonda e singolare del carattere di ciascuno di loro, espressa attraverso una presenza scenica naturale ed emotiva, che crea un’empatia profonda con il pubblico in sala.
Il risultato è uno spettacolo appassionante e convincente che invita gli spettatori ad una riflessione su se stessi alla ricerca di un’autenticità interiore che possa oltrepassare le maschere imposte dalla società, piena di pregiudizi e apparenze: “e sei tutto e sei niente”.
La realtà è che “i fantasmi non vanno cercati lontano, sono dentro di noi”, basterebbe riconoscerli.

Classe 5H Liceo Artistico Venturi
Michela Bertoncelli, Silvia Bertoni, Alessandro Giannatempo, Valentina Mirabella

SE NON HAI CASA IL MONDO E’ TUO
La rubrica degli studenti del Liceo Venturi

Gli Scalognati scappano, si chiudono nel loro esilio, vedono nella fuga dalla realtà l’unico antidoto a una quotidianità fatta di maschere. Scappare, fuggire per poter scegliere di non voler essere niente di ciò che viene imposto. È nella scelta stessa di essere altro che viene vista la pazzia, pazzia che spiazza, che rende emarginati agli occhi del pubblico il quale, vestito della sua inconsapevolezza, ride di quel riflesso di realtà in cui non si riconosce. Tra quei “pazzi” e le poltrone vi è un vetro insonorizzato, uno schermo che permette di guardare dall’alto della propria normalità una storia che non si vive come propria: ci si sente estranei a quel dipinto confuso a cui ci si trova davanti. Eppure…
La società attuale pone in apparenza le sue fondamenta sulla libera espressione di sé stessi, sulla possibilità di esternare ciò che meglio esprime la propria interiorità: forti dei propri profili virtuali si è capaci di interpretare ogni sfaccettatura della realtà complessa in cui si vive. Ma si è davvero liberi?
Si è esperti dell’arte camaleontica, capaci di cambiare abiti di scena e copione in funzione della situazione che si presenta. Ciò su cui ci si deve soffermare è il ruolo che si impersona nella scena della propria società: si è solo comparse che subiscono i valori imposti dall’attualità. Ma l’accettazione di esse, quella totale, quella che disorienta e rende nudi di fronte ad un contesto sociale opprimente, sgretola la sporgenza a cui con così tanta naturalezza ci si è sempre aggrappati.
Ed è solamente quando non si vuole più niente che si ha tutto.

Classe 5H Liceo Artistico Venturi
Aurora Bisini, Lisa Cavazzuti, Cecilia Ferrari, Alice Seidenari

L'ORA DI RICEVIMENTO

MASSINI RACCONTA LA MISSIONE DELL’INSEGNANTE
La recensione dei ragazzi del liceo classico linguistico Muratori-San Carlo

Voci di bambini che in cortile giocano a pallone. Buio. «Una scatola d’intonaco. E dentro 26 occhi che mi guardano. Una scatola d’intonaco, interrotta solo da una porta di legno verde, in fondo, a sinistra. E dalla parte opposta, alta fino al culmine del muro, una finestra». Così esordisce la prima scena dello spettacolo L’ora di ricevimento (banlieue), di Stefano Massini con regia di Michele Placido, presentato al Teatro Storchi di Modena il 14 dicembre 2017. Scenografie semplici, una cattedra e qualche sedia, caratterizzano l’ambientazione degli avvenimenti. È il professore Ardeche che parla, l’insegnante di lettere di una scuola media della banlieue di Les Izards, ai margini dell’area metropolitana di Tolosa. È attraverso la maestria dell’attore Fabrizio Bentivoglio nell’interpretare questo ruolo, che riusciamo davvero a comprendere la natura di questo personaggio dalla personalità cinica, il quale trova ispirazione solamente nelle opere di Voltaire, Rabelais e Baudelaire. Dopo ben 32 anni di insegnamento, in un quartiere difficile come quello di Les Izards, dove la sua passione per i grandi autori francesi non viene condivisa, egli è portato a svolgere il suo lavoro con rassegnazione e in maniera passiva.
I 26 occhi che lo guardano sono quelli dei 13 alunni della sua classe. Ad ognuno di essi, egli assegna un soprannome a seconda del posto in cui siedono o di una loro caratteristica, ad esempio, Primo Banco, Raffreddore, Invisibile e così via. Il professore identificherà gli allievi con i medesimi nomignoli per l’intera durata dell’anno scolastico. Una delle maggiori difficoltà che egli riscontra consiste nel conciliare le necessità e le differenze culturali e religiose di ciascuno studente. L’entrata in scena del nuovo professore di aritmetica, Saint-Pierre, interpretato dall’attore Francesco Bolo Rossini, presenta una diversa tipologia di insegnante. Troviamo, quindi, un’evidente contrapposizione tra due personaggi molto differenti: il professor Ardeche attribuisce etichette e non riesce a vedere oltre queste; l’insegnante di aritmetica, invece, in quanto inesperto del mondo scolastico, risulta ingenuo. Questo aspetto va a suo discapito poiché, nonostante abbia un intento positivo, gli altri riescono sempre ad approfittare e a farsi beffe di lui. Egli non ha la capacità di imporsi, come invece prevedrebbe il suo ruolo, di conseguenza si trova ad essere subordinato ai suoi stessi alunni. Questi ultimi non compaiono mai sulla scena, a differenza dei genitori che invece vengono numerosi all’ora di ricevimento, dalle 11 alle 12 del giovedì mattina: da qui il titolo emblematico della rappresentazione.
Le scene sono un susseguirsi di monologhi e dialoghi che creano dinamicità, comicità e suscitano interesse negli spettatori. Il pubblico, grazie all’abile interpretazione degli attori e alla narrazione delle vicende, riesce ad identificarsi con le corrispettive fasce di età dei personaggi presentati. Protagonista indiscussa dello spettacolo è l’ironia, che, attraverso numerose battute di spirito e risate di gusto, fa di esso una vera e propria opera satirica. Satira che fa emergere in maniera alquanto evidente una profonda decadenza della società odierna. Essa tende sempre più ad una severa classificazione degli studenti, piuttosto che mirare alla soddisfazione delle loro vere esigenze. Questo degrado sociale è rappresentato dall’ammissione di sconfitta del professor Ardeche, con la quale si chiude lo spettacolo: «E per quanto io cerchi ogni anno di dare il meglio, la verità è che alla fine io perdo». Buio.

Classe 5AL Liceo Classico Linguistico L.A. Muratori-San Carlo
Sara Colavito, Jennifer Reggiani, Carolina Torquato Meyer 

IL PRIMO COMPITO E’ METTERSI IN GIOCO
La rubrica dei ragazzi del liceo classico linguistico Muratori-San Carlo

«Partire non solo da ciò che l’alunno straniero “non sa”, ma anche dalla sua esperienza, dal suo sfondo emotivo-relazionale e dal suo patrimonio culturale» è ciò che sostiene l’ispettore tecnico Gian Antonio Lucca sul tema dell’istruzione ed è ciò che manca al protagonista de “L’ora di ricevimento”. Egli infatti con i suoi metodi tradizionali non riesce ad andare oltre alla pura didattica. Oggi le classi sono eterogenee e per questo è necessario modificare i metodi educativi. É l’insegnante che prima di tutti deve adattarsi a questa nuova situazione, mettendosi in gioco e trovando il coraggio di correggersi. Si tratta di una sfida da affrontare ogni giorno. Se ciò avviene, questa diversità può acquisire molti aspetti positivi. Infatti, a partire dal dialogo, si può raggiungere un arricchimento personale che consiste nella conoscenza di nuove culture e tradizioni, ma anche di nuovi punti di vista diversi dal proprio. Inoltre si può riflettere sul fatto che, ancora oggi, ci sono paesi in cui le condizioni di vita sono sfavorevoli rispetto a quelle del mondo occidentale. Nel caso in cui il professore non sia in grado di adeguarsi, non avverrà uno sviluppo a livello educativo. 

Classe 5AL Liceo Classico Linguistico L.A. Muratori-San Carlo
Cecilia Ruini, Irene Pignatti

MEDEA

UNA MINACCIA CHE INCOMBE SUL PUBBLICO
La recensione dei ragazzi del liceo delle Scienze umane Sigonio di Modena

Un lamento antico proveniente da lontano apre la scena proiettandoci nell’antica Grecia, dove prende vita la vicenda di Medea.
«Preferirei stare tre volte presso lo scudo piuttosto che partorire una sola volta»: ecco come si pone nei confronti degli spettatori, la protagonista dell’omonima tragedia, donna che appare profondamente turbata fino a macchiarsi del sangue dei propri figli per puro desiderio di vendetta. In realtà personaggio complesso, dotato di molteplici sfumature, Medea è la più nota antieroina della letteratura greca.
Dal 15 al 18 febbraio va in scena al Teatro Storchi la rappresentazione dell’opera di Euripide, diretta dal regista Daniele Salvo che ripropone lo storico allestimento di Luca Ronconi del 1996.
Nei panni di Medea Franco Branciaroli che, assieme ad Alfonso Veneroso (Giasone) e Antonio Zanoletti (Creonte), recitò anche nella precedente edizione. Insieme ad altri attori hanno dato vita ad uno spettacolo senza precedenti per il livello della recitazione che, talvolta al limite della parodia, sottolinea il carattere smisurato del personaggio principale e dell’innovativo coro delle donne, casalinghe – comari petulanti.
La storia di Medea, ambientata in un tempo mitico, coinvolge e travolge lo spettatore per la macabra crudeltà delle vicende: vittima del tradimento e del ripudio del marito, che vuole sposare la principessa di Corinto, Medea ordisce la morte della futura moglie di Giasone e di Creonte, re della città; e, successivamente, dei figli. La caratteristica che pone lo spettacolo su un livello superiore rispetto agli altri, è l’interpretazione di Medea da parte di un uomo. Questo non sminuisce l’emotività del personaggio, anzi la arricchisce, come sosteneva Ronconi: «non si tratta di una tragedia sulla femminilità, ma sulla diversità». Medea è una straniera che abbandona la propria patria per inseguire l’amore che le si ritorcerà contro e che sarà causa della sua ira e disperazione. Medea, mostruosa, grottesca, ambivalente, figura di irriducibile alterità, minaccia all’ordine del mondo: Branciaroli con la sua ampia escursione vocale la rappresenta ora pienamente donna, ora invasa da un’ira mascolina e distruttiva. Intenso anche il monologo del messaggero (Tommaso Cardarelli) che narra a Medea la morte di Creonte e della figlia.
Il punto di fuoco dello spettacolo è la scenografia: Ronconi ha attribuito ad ogni oggetto di scena un significato trasversale per mostrare le diverse sfaccettature del mito e offrirci nuovi spunti di riflessione. Come ad esempio lo sfondo della prima scena: la proiezione di un’operazione chirurgica al cuore che si rivela così essere solo carne e non sede di alcuna anima, secondo la lucida razionalità di Euripide. O come il pianoforte a cui si aggrappa Medea che qui rappresenta il valore della sua cultura straniera; la scala: l’ordine gerarchico della società greca che si ritiene superiore alle altre; le sedie dismesse di un vecchio cinema di periferia dimostrano che gli antichi valori sono sostituiti dalla corruzione di una città moderna a dai falsi miti dello schermo. Le luci, invece, sembrano sottolineare il passaggio da notte a giorno da un lato, dall’emozione alla fredda razionalità dall’altro: in particolare la luce blu definisce l’esplosione dell’ ira e i deliri. Tutti gli uomini e le donne di Corinto vestono uguali tra loro, simbolo della omologazione stabilita dal governo corrotto della città, mentre gli abiti di Medea ne suggeriscono la diversa provenienza. Come spiega Antonio Zanoletti dietro le quinte, le interpretazioni di Medea, recitate da attrici femminili, non potranno mai rendere quanto questa rappresentazione: le donne la interpretano in chiave più isterica, enfatizzando la gelosia e l’invidia di Medea. Al contrario Branciaroli, con la sua straordinaria bravura, fa di Medea una creatura misteriosa e mostruosa che usa la propria femminilità come maschera per essere accettata e sostenuta dal coro delle donne.
Far rivivere dopo vent’anni uno spettacolo come Medea è per il giovane pubblico occasione di vivo coinvolgimento e di riflessione: è la scoperta di un’emozione senza fine che solo il teatro sa dare.

Classe 4D, Liceo delle Scienze Umane C. Sigonio
Sara Bosi, Jennifer Colazzo, Filomena De Furia,  Liana Dodan, Simona Fontana, Cecilia Galli, Giorgia Muratori Casali, Elena Ognibene. Sandra Paltrinieri

E’ COSI’ FACILE IMMEDE(A)SIMARSI
La rubrica dei ragazzi del liceo delle Scienze umane Sigonio di Modena

«Ti ho dato vita e ora ti do morte»: queste terribili parole di Medea si trasformano tragicamente in realtà. I casi di figlicidio in Italia sono in grande crescita rispetto agli ultimi quindici anni. Le cause sono molteplici, non solo da attribuire a un improvviso momento di follia: uno Stato corrotto, insostenibili pregiudizi sociali, una società indifferente, il tradimento di chi  i sta accanto.
Euripide narra di come una persona esule soggetta al continuo giudizio altrui e sempre rifiutata possa arrivare a compiere le azioni più ignobili. Le guerre, le discriminazioni e le diseguaglianze sociali producono una serie infinita di tragedie, estreme sofferenze, vittime innocenti come i bambini e adulti disperati come Medea che arriva a fare il gesto più impensabile e innaturale per una donna. «Non lascerò i miei bambini al ludibrio dei miei nemici», così recita Medea e aggiunge: «Nessun dolore supera la perdita del paese nativo», tranne forse il macabro gesto dell’uccisione delle proprie creature. Seppur si tratti di un mito narrato da Euripide più di 2400 anni fa, il teatro greco è, come dice lo studioso George Steiner, dotato di «energia di reiterazione», ossia della capacità di riproporsi sempre nel tempo e nello spazio. Medea, straniera e portatrice di una cultura altra, è infatti l’esempio di questo eterno ritorno del mito. Oggi sono presenti in Italia cinque milioni di stranieri, ma nel 2015 ben settemila hanno lasciato l’Italia per andare a vivere in altri paesi europei. Anche noi forse non proviamo nessuna pietà per Medea?

Classe 4^D Liceo delle Scienze Umane C. Sigonio
Ilaria Barberini, Federica Chiossi, Camilla Grazioli, Chiara Maccaferri,Valentina Poggi, Gaia Romoli, Ginevra Rotulo, Alice Santoli, Clelia Vincenzi

 

GIOIE E DOLORI NELLA VITA DELLE GIRAFFE

LA FUGA DI JUDY NEL MONDO DEGLI ADULTI 
La recensione dei ragazzi del liceo classico e linguistico Muratori-San Carlo

Le luci spente, un parcheggio vuoto e quattro personaggi che giocano ai dadi. Un corpo che cade. Si accende una televisione. Una bambina ed una ricerca scolastica sulle giraffe, le urla di un padre, una fuga con il suo migliore amico, un’avventura con sé stessa e con il mondo. Il ritorno esattamente da dove era partita.
Di questo tratta lo spettacolo Gioie e dolori nella vita delle giraffe testo del portoghese Tiago Rodrigues, tradotto in italiano da Vincenzo Arsillo e diretto da Teodoro Bonci del Bene – in scena al Teatro delle Passioni.
La minimale sceneggiatura, gli immutati costumi di scena, il gioco di luci e la quasi costante colonna sonora contribuiscono a creare ambientazioni credibili sebbene l’integrità dell’opera abbia luogo nello stesso parcheggio il quale ospita, oltre all’abitazione di Giraffa e del padre, le strade dell’odierna Lisbona, nella quale ha luogo la seconda metà dell’azione.
La storia è quella di Giraffa, una bambina di nove anni sorprendentemente precoce, interpretata da Carolina Cangini, che ne rappresenta il lato più maturo con un aspetto ribelle e un carattere determinato. La relazione turbata con l’eccentrico padre (interpretato da Dany Greggio), disoccupato e consumato dalla dipendenza, e l’assenza della madre, che si è tolta la vita, sono le cause determinanti della sua fuga. La stessa che la porterà, insieme al suo orsetto di peluche Judy Garland, a contatto con i pericoli del mondo degli adulti, riconducendola da suo padre.
Jacopo Trebbi dona al personaggio di Judy Garland una personalità esuberante, tramite un modo colorato di esprimersi. Pantera, Il terzo compagno di viaggio dei protagonisti, interpretato da Martin Chishimba, rappresenta, tramite un lettore MP4 precedentemente utilizzato dalla madre, un elemento portante della vita di Giraffa, che si porta sempre con sé nelle sue avventure.
L’aspetto fondamentale dell’opera è la caratterizzazione dei quattro personaggi protagonisti, che, grazie alla regia dell’abile Teodoro Bonci del Bene, riescono a trasmettere una dimensione realistica ma allo stesso tempo onirica. Infatti i luoghi d’azione, sebbene esplicitati dal dialogo tra i personaggi, possono appartenere ad una sfera metaforica, la quale è aperta a varie interpretazioni. Un sacchetto di soldi, denominati in un primo momento come “soldi arrabbiati” mentre in un secondo “soldi felici”, possono illustrare un mondo nel quale, all’interno della sceneggiatura, ogni cosa è consumata e da consumare, come, per esempio, l’istruzione di Giraffa, che desidera ardentemente imparare, nonostante si trovi in una famiglia priva di mezzi.
Un altro aspetto fondamentale dello spettacolo è la presentazione di tipologie di persone non propriamente adattate alla società contemporanea, come lo stesso padre di Giraffa, che, disoccupato, non è in grado di procurarsi ciò che la figlia desidera così ardentemente, come l’abbonamento a Discovery Channel, o come il personaggio del clochard che appare nella seconda parte dell’opera.
In conclusione la rappresentazione presenta uno spaccato realistico e profondo di società attraverso scene e dialoghi fortemente onirici e simbolici.

Classe 4AL Liceo classico e linguistico Muratori San Carlo
Edoardo Righetti, Alessia Donovan

IL VIAGGIO, LA CRESCITA E L’ADDIO ALL’INFANZIA
La rubrica dei ragazzi del liceo classico e linguistico Muratori-San Carlo

“Vagare è l’atto di girare, camminare a caso, errare o fantasticare”.  Una ricerca scolastica sulle giraffe e l’occasione per una fuga di una bimba troppo alta per la sua età. Una fuga dalla propria quotidianità solitaria, accompagnata solamente dalle proprie fantasie che la condurrà ad un intreccio complicato di storie. Ciò che accomuna ogni storia è la condizione di emarginazione, di staticità, di esseri “parcheggiati” nella propria vita. Il parcheggio accomuna scene di vita quotidiana e l’avventura stessa. L’immobilità è il filo conduttore narrativo. L’avventura parte senza una meta precisa, i personaggi errano nei vicoli della città di Lisbona alla ricerca del proprio spazio nel mondo, con un finale a sorpresa che rivelerà agli spettatori e ai personaggi stessi che ciò che pensavano di stare cercando, in effetti non li soddisfa. È la storia anche di una crescita che porterà ad una morte; la morte dei tratti infantili della protagonista, di un personaggio che la affiancherà per tutto il corso dell’opera. Una crescita che le aprirà gli occhi sulla realtà, lasciandola disillusa e più pragmatica nei confronti della vita. La ricerca sulle giraffe si conclude quindi con la realizzazione del vero significato del viaggio: l’autore lascia libera interpretazione allo spettatore, che trae le proprie conclusioni. Un’opera che lascia ampio spazio all’immaginazione e che coinvolge, all’interno di una vita apparentemente comune ma che metaforicamente allude a ironiche critiche sociali. Uno spettacolo di forte valore allegorico e satirico, che descrive un frammento di vita contemporanea.

Classe 4AL Liceo classico e linguistico Muratori San Carlo
Ludovica Colombo, Giulia Ciocci 

GIULIO CESARE

LA COLPA NON E’ NELLE NOSTRE STELLE
La recensione dei ragazzi del liceo musicale Carlo Sigonio di Modena

WORDS e WAR sono le due parole che – proiettate sullo sfondo – separano idealmente la prima e la seconda parte dello spettacolo.
Inizialmente sono infatti i dialoghi a prevalere sull’azione. Questa scelta di regia porta – in alcuni punti – ad una scarsa dinamicità, ma allo stesso tempo permette al pubblico di immergersi in un’analisi introspettiva e psicologica dei sentimenti dei personaggi. L’ingresso di tetre figure travestite da lupo che danzano un pogo punk rock innescano un iniziale piacevole disorientamento del pubblico in sala. Questi costumi rappresentano la parte violenta dei cospiratori all’interno del gregge del popolo romano. Man mano che si procede con l’azione i costumi da lupo, che rendono goffi i movimenti degli attori, spariscono, rivelando l’animo apparentemente mite di questi personaggi che agiscono per il bene di Roma. Ma i nuovi costumi ricordano le divise bianche di Alex e i suoi Drughi: la violenza è alle porte.
Indubbiamente da lodare il Gender-blind casing – in particolare Cassio e Cesare – interpretati da donne. Questo dettaglio ricorda la tradizionale politicizzazione della tragedia Shakespeariana la quale ha visto, per esempio, negli anni Ottanta messe in scena che criticavano il Thatcherismo, negli anni Duemila allestimenti che ricordavano i dittatori post 11 Settembre, fino a culminare nel 2017 quando a New York, Cesare somigliava a Donald Trump. In questa versione si è pensato alle tante Leader donna nel mondo: Angela Merkel, Theresa May o anche Virginia Raggi proprio a Roma, non tanto per criticare il loro operato, ma per dimostrare che anche le donne, oggi, sono al potere in grandi città e nazioni.  
Tuttavia la parte di Calpurnia, moglie di Cesare, è stata eliminata: una decisione incoerente, a nostro avviso, data l’importanza di quella figura, sia dal punto di vista drammatico, sia per i collegamenti che avrebbe offerto in campo di same-sex marriage.
Un’altra – seppur parziale – omissione è quella del mob, il popolo, la folla facilmente malleabile dalla retorica dei governanti. Solo alla fine del primo atto è proprio il pubblico – a luci accese in sala – che si trova di colpo a far parte della scena nei panni del popolo romano in ascolto durante le celeberrime orazioni funebri di Bruto e Antonio.
Dopo l’intervallo regna la parola WAR proiettata sullo sfondo. L’azione diventa dinamica e coinvolgente. Dal container bianco al centro del palco appare un imponente cumulo di ossa che, man mano, gli attori vanno a spostare freneticamente, a rappresentare la carneficina della battaglia di Filippi. I dialoghi – rapidi e coincisi e recitati al microfono con grande perizia vocale ed espressiva degli attori – ricordano una cronaca dal fronte di guerra, trasmettendo al pubblico la concitazione delle azioni nel conflitto.
Se il Teatro non era gremito, la colpa, citando Cassio «non è nelle nostre stelle», ovvero degli attori che hanno dato prova di estrema bravura e capacità interpretative. A penalizzare l’afflusso del pubblico sono state probabilmente, alcune scelte di regia come, ad esempio, gli enormi piedi kitsch da lupo che stridevano con la solennità della cospirazione e la grande lentezza del primo atto.
Il secondo atto è più ricco di azione e trascina il pubblico nel turbine del conflitto in corso. La scenografia finale è a sorpresa: riprende temi di attualità che hanno aleggiato nelle due ore di spettacolo. È una messa in scena forte, celebrale, da studiare, vedere e apprezzare. 

Classe 4 M Liceo Musicale Carlo Sigonio
Emanuele Sgarbi, Veronica Di Napoli, Davide Delaiti, Matteo Longagnani

IN SCENA UNA TRAGEDIA SENZA TEMPO 
La rubrica dei ragazzi del liceo musicale Carlo Sigonio di Modena

Aylan Kurdi, un bambino siriano di tre anni affogato nel Mar Mediterraneo il 2 settembre 2015 e fotografato prono sul litorale turco, è divenuto simbolo della crisi europea dei migranti. Purtroppo Aylan non è l’unica vittima della veemenza umana. Infatti, in Siria la guerra civile imperversa dal 2011. I civili come Aylan sono inermi e fuggono dall’inferno.
È necessario l’utilizzo della violenza allo scopo di raggiungere una situazione politica stabile?
Nel Giulio Cesare diretto da Àlex Rigola, la violenza è presente al fine di dimostrarne l’inutilità e l’inefficacia.
All’inizio dello spettacolo vengono proiettati filmati aventi come protagonisti dittatori e politici del presente e del passato: Hitler, Kim Jong-un, Berlusconi, Trump e Blair. Contemporaneamente vengono poste al pubblico domande esistenziali riguardanti l’uso inopportuno della violenza.
È proprio a questo scopo che all’inizio della messa in scena viene proiettata l’immagine del corpicino del piccolo Aylan. Questa icona forte e spiazzante è rilevante in quanto ripresa successivamente in un momento topico dello spettacolo.
I contenuti emersi dalla rivisitazione del regista sono particolarmente coinvolgenti, poiché affrontano tematiche estremamente attuali: la violenza, infatti, non solo uccide i dittatori, ma, di riflesso anche gli innocenti civili. Non a caso il nesso con la guerra civile che seguì l’assassinio di Cesare riporta all’attualità della guerra in Siria.

Classe 4 M Liceo Musicale Carlo Sigonio
Giorgia Brighenti, Lidia Berforini D’Aquino, Margherita Martino, Aishat Leal, Viola Miari, Linda Malvezzi

LA CLASSE OPERAIA VA IN PARADISO

QUANDO IN FABBRICA SI ROMPE LA MASCHERA
La recensione dei ragazzi dell’istituto tecnico Barozzi di Modena

FINO al 4 febbraio va in scena, al Teatro Storchi di Modena ‘La classe operaia va in paradiso’, drammaturgia di Paolo Di Paolo e regia di Claudio Longhi. Lo spettacolo è liberamente tratto dall’omonima pellicola, diretta da E. Petri (anche sceneggiatore con U. Pirro), che uscì nel 1971, rappresentando in maniera disincantata e conflittuale il mondo operaio dell’Italia di allora e generando non pochi malumori e dissapori tra intellettuali e registi nella sinistra italiana, nonostante la resa scenica fosse affidata a grandi attori come Gian Maria Volonté, Mariangela Melato e Salvo Randone.
Il protagonista è Ludovico (Lulù) Massa, interpretato da Lino Guanciale, un operaio che fa del lavoro
presso la fabbrica BAN, la sua unica ragione di vita, tanto da indossare ‘la maschera’ del cottimista
perfetto per i padroni, del ‘crumiro’ per i suoi colleghi e ad arrivare a uno stato di alienazione che lo porta a identificarsi con il processo produttivo e gli oggetti che possiede (la tv, la macchina) e non più con i ritmi naturali dell’essere umano, tanto da non riuscire più a fare l’amore con la sua compagna Lidia. Questo percorso si interrompe bruscamente a causa di un’incidente in cui l’uomo perde un dito: questo momento di lucidità rappresenta la rottura della ‘maschera’. Lulù si farà infatti latore della coscienza di classe che per tanto tempo era in lui rimasta sopita e, seguendo le teorie studentesche che incitavano a ribellarsi nei confronti dei padroni sfruttatori, sosterrà le lotte operaie anche se antisindacali e violente. In queste vicende, appare chiaro il riferimento allo spaccato storico del ‘68 e degli anni di piombo, che sconvolsero la nazione. Ma la protesta è destinata a cadere nel vuoto ed avrà effetti autolesionistici per il protagonista, licenziato in tronco e abbandonato dalla compagna che lo lascerà perché non può più garantirle lo stesso tenore di vita. Non gli resta che rindossare la maschera di operaio e, una volta riassunto grazie all’intervento dei sindacati, abbandonarsi a sogni utopici di riscatto sociale alla catena di montaggio. La scena che ha al suo centro un nastro trasportatore che richiama il ritmo incalzante, e spersonalizzante della fabbrica, è calcata da Lino Guanciale che alterna in maniera magistrale, nel personaggio principale, stati di esaltazione a momenti di fredda lucidità e tra gli altri, da Donatella Allegro, Nicola Bortolotti, Michele Dell’Utri, Simone Francia, Diana Manea, Eugenio Papalia, Franca Penone, Simone Tangolo che interpretano personaggi controversi, frustrati e grotteschi, fra cui anche lo sceneggiatore, il regista e, nell’ottica dello sfondamento della quarta parete, anche qualche spettatore, non tralasciando figure che si inseriscono nel mondo culturale italiano della fine degli anni Sessanta. Il repertorio musicale composto da Filippo Zattini, non fa solo da cornice allo spettacolo ma ne evidenzia e ne esalta le scene più significative, richiamando l’attenzione dello spettatore su particolari frangenti della narrazione, vivacizzandone e sottolineando il ritmo narrativo, intessendo sapientemente le melodie di Vivaldi con quelle più contemporanee dell’Italia di quegli anni. Infine il tema del lavoro che sta al centro della rappresentazione, pur partendo dai presupposti ideologici e reali degli anni Settanta, instaura un dialogo e un confronto con la situazione attuale, delineandone tutte le specificità e le differenze del caso.

IL LABILE CONFINE TRA IL LAVORO E LA VITA
La rubrica dei ragazzi dell’istituto tecnico Barozzi di Modena

‘LA classe operaia va in paradiso’ ha come tema portante quello del lavoro, in una società che spinge l’uomo a tenere alti i ritmi di produzione perché essa si identifica, si nutre e spesso mette su un piedistallo, come feticci, proprio gli stessi oggetti che l’industria sforna. In questo si può vedere una situazione analoga alla nostra epoca, basata spesso su un consumismo imperante che non ha alcun
rispetto per la vita umana. Sono noti gli scandali legati alle multinazionali che, in spregio alla dignità del lavoro, decidono di delocalizzare in paesi sottosviluppati o in via di sviluppo per abbattere i costi ma anche nel nostro paese le molte morti sul lavoro, legate al mancato rispetto, spesso per regioni di risparmio, delle norme sulla sicurezza. Inoltre i rischi che derivano da questa corsa a produrre utile ad ogni costo sono in primo luogo psicologici, portando l’individuo soffocato dal tempo/lavoro fuori dalla dimensione umana, verso l’alienazione e poi sociali, con il diradarsi delle relazioni con i propri simili. Questi meccanismi sono stati magistralmente rappresentati nella letteratura da Luigi Pirandello e nel cinema da film ‘Tempi moderni’ di C. Chaplin. Bisogna quindi tornare ad una dimensione etica del tempo che ponga al centro dello stesso non l’operaio o il lavoratore in genere ma l’uomo che sia produttore e non schiavo degli oggetti.

Classe 5CAFM dell’ITES Barozzi
Bernucci Silvia, Chemelli Lucas, De Leva Giuseppe, Marchì Marika Monzani Simone, Paronetto Laura, Pecorari Enrico, Zanelli Clara

LI BUFFONI

STORIA E VITA DI UN’UMANITÀ «DIVERSA» 
La recensione dei ragazzi del liceo classico Muratori-San Carlo di Modena

«Buffi,storti,nani,gobbi,scimuniti».
Così l’autrice seicentesca Margherita Costa descrive i personaggi del suo canovaccio di Commedia dell’Arte, rielaborato ne’ Li Buffoni da Nanni Garella e dalla Compagnia Arte e Salute. Attivo dal 2000
e vincitore di un premio Ubu nel 2004, questo gruppo è formato da attori individuati tra i pazienti del
Dipartimento di Salute Mentale e divenuti autentici professionisti grazie alla formazione ricevuta
all’interno del progetto gestito dal 1999 da Garella stesso. Nei malfamati sobborghi di una città italiana, si consumano le vite di donne e uomini, diversi per lingua e cultura, ma uniti da un sentimento di malessere dovuto alla loro emarginazione.
In scena i caratteri tipici della Commedia dell’Arte si trasformano in persone che vivono la loro
quotidianità fatta di amori, gelosie, litigi; insomma, le tante piccole miserie di un’umanità «diversa» perché provata ed esclusa dalla vita.
Una moglie trascurata e infelice, un marito indifferente e rozzo, donne ridotte a vendersi per qualche
comodità, relitti umani che si adattano alla realtà in cui si ritrovano.
Ciò che li accomuna è il dolore per la lontananza dall’«Itaca» di ciascuno: la patria, la famiglia ma anche l’infanzia e l’innocenza. Nel finale uno dei personaggi muore, altri ritrovano gli affetti perduti, uno si pente, altri accettano la propria condizione, rendendo quest’ultimo momento un vero e proprio insegnamento per lo spettatore: le delusioni e le controversie della vita devono essere accettate e vissute senza che prevarichino sulla felicità possibile. Per il bene comune bisogna superare differenze e dissapori e provare simpatia per il prossimo.
Il finale rimane un po’ inconcluso, nel bene e nel male, secondo quella che era probabilmente la tradizione della Commedia dell’Arte, dove la performance era più importante dei temi proposti. Nella tessitura delle vicende si intravedono infatti le diverse matrici dell’opera: l’intreccio tipico della Commedia dell’Arte, i tipi umani e le situazioni della commedia antica. Tutte le tematiche importanti vengono introdotte e sviluppate in maniera leggera e con molta ironia, cosa che accompagna lo sviluppo drammaturgico dall’inizio alla fine. La struttura, che talvolta appare un po’ slegata, riprende la tradizione seicentesca, dando l’occasione a ogni attore di emergere e di dimostrare le proprie doti. La performance scenica ci fa intravedere la natura, il carattere e lo stile di ognuno nel vivere e nel portare in scena se stessi nel proprio personaggio. L’immedesimazione degli attori coinvolge piacevolmente il pubblico in una danza tra quotidianità e teatro che ci mette davanti alle problematiche della vita senza farci preoccupare troppo delle possibili cadute. Gli intermezzi musicali alleggeriscono l’atmosfera e rivelano le ottime doti canore di questi straordinari attori. Le maschere così non sono più maschere, ma persone che popolano la nostra realtà quotidiana aggiungendovi
simpatia e invitandoci anche a riflettere. Lo spettatore del XXI secolo, immerso in una situazione
come quella attuale, non può che essere piacevolmente colpito dalla facilità con cui realtà umane così diverse raggiungono l’unità attraverso il linguaggio «Italianato». I personaggi infatti parlano una «strana» lingua comune, risultato di una fusione tra lingue e parlate diverse, tutte tradotte in una koinè che tutte le rispetta e rappresenta.
La Babele linguistica di Nanni Garella non divide le genti ma le unisce e le fa parlare tra loro.

Classse 4G Liceo Classico Muratori – San Carlo
Martina Chiapponi, Klara Hoxha, Bianca Iancu, Matilde Inzoli Govoni, Giulia Martinelli, Maria Teresa Vannini, Ginevra Zanoni

LA LINGUA CHE VIENE DAL MARE
La rubrica dei ragazzi del liceo classico Muratori-San Carlo di Modena

Che lingua è l’italiano? Quella che siamo portati a imparare tra le mura scolastiche o il brusio che ci accompagna nelle strade? La metamorfosi linguistica sorge sulla soglia che separa il mondo delle imposizioni da quello in cui la nostra vera natura emerge, ovvero il luogo dove la miscela linguistica si traduce nell’“italianato”, compromesso tra una lingua ormai sterile e un parlare straniero trasportato dalle onde del mare. Questo fenomeno culmina proprio in Italia, che, per la sua natura di penisola, è tanto isolata da tutto quanto approdo di tutti. Il Mediterraneo, infatti, non è un muro invalicabile ma una porta socchiusa dalla quale traspare uno spiraglio di speranza che si riflette tra le onde. Coloro che sono soliti navigare questo mare, portano una lingua che non differisce dall’italiano tanto più dei dialetti che già creano separazioni interne al nostro paese. L’Italia non è altro che una moderna Babilonia, che, in futuro, invece di essere scenario di scissione, potrà fondere le diversità in un’unica realtà. Questa unione non potrà avere luogo fintanto che perseguiremo invano una pura italianità inesistente, ma avverrà solo una volta raggiunta la consapevolezza che in fondo non siamo altro che immigrati, abitanti di una terra che non appartiene realmente a nessuno.

Classe 4G Liceo Classico Muratori-San Carlo
Martina Chiapponi, Klara Hoxha, Bianca Gabriela Iancu, Matilde Inzoli Govoni, Giulia Martinelli, Maria Teresa Vannini, Ginevra Zanoni 

1984

LO SPIETATO REALISMO INGLESE APPRODA QUI
La recensione dei ragazzi del liceo classico Muratori-San Carlo di Modena

LONDRA, 1984. Winston Smith, un semplice funzionario del ministero della Verità, per lavoro si vede ogni giorno costretto a cancellare centinaia di informazioni del passato, sostituendole con quelle che il governo ritiene più idonee, in modo da creare una memoria storica favorevole al contemporaneo regime, governato dal Grande Fratello. In un mondo in cui la continua guerra è pace e dove la libertà è schiavitù, Winston sente una spinta dionisiaca alla libertà, che lo porta ad assumere un atteggiamento sempre più ribelle. Tenere un suo diario personale, frequentare in segreto Julia, donna molto passionale, e avvicinarsi ad una realtà che contrasta con il regime sono solo alcuni dei crimini che lo condurranno a mettere in pericolo la propria vita in nome di un gioco contorto di sopravvivenza tra libertà individuale e sistema. Il regista Mattew Lenton e la sua compagnia hanno indubbiamente colto con entusiasmo la sfida provocatoria e, allo stesso tempo, intellettuale che il romanzo distopico di George Orwell continua a proporre anche in questi ‘tempi interessanti’, come li definirebbe Slavoj Zizek. Il risultato di questa provocazione è una messa in scena che coniuga lo spietato realismo, tipico del teatro anglosassone, con l’intento pedagogico ricercato da Claudio Longhi, direttore di ERT che ha prodotto lo spettacolo, e con una sfumatura di impegno politico, spesso presente nel teatro contemporaneo. Esempio lampante di questa tendenza è il prologo dello spettacolo, durante il quale a due attori viene posta una domanda, diversa per ogni replica, circa i temi di attualità che il regista
sente più urgenti per una riflessione collettiva. L’intero intreccio narrativo è stato costruito sulla base di otto dialoghi fondamentali, che sono stati individuati nella fase preliminare di collaborazione tra il
cast e la regia. Il regista Mattew Lenton, inoltre, riprende fedelmente l’omonimo capolavoro e dirige
con mano ferma i suoi attori, non lasciando nulla al caso, ma creando una perfetta sincronia di battute e movimenti che rende la visione piacevole e alleggerisce la pesantezza del tema trattato. Dal punto di vista della recitazione, non si possono che lodare le splendide interpretazioni di tutto il cast, in particolare dei protagonisti Luca Carboni e Aurora Peres. Gli attori danno voce alle parole del romanzo
senza l’inserimento di elementi estranei alla narrazione dello scrittore inglese; particolarmente suggestiva risulta la scelta registica di inserire una figura, interpretata da Nicole Guerzoni, che incarna allo stesso tempo il narratore onnisciente della vicenda e l’espressione della coscienza del protagonista. Facendo irruzione sulla scena, poi, sfonda la parete che la separa dalla vicenda ed entra a far parte del quadro narrativo attraverso quella che pare essere la descrizione di un intrigante quadro in movimento esaltato dalle scelte scenografiche portate sul palco. Lo spettacolo si presenta come un prodotto semi-cinematografico, dove la scenografia, le luci e i suoni sembrano collaborare in maniera coerente ed efficace, riuscendo a rendere chiara la sensazione di forte straniamento del protagonista e tentando di far immedesimare gli spettatori nella vicenda, ricorrendo ad abbaglianti luci LED e a immagini di cruda tortura, ripercorrendo uno schema simile a quello della catarsi delle tragedie greche. Infine, la dolce voce del narratore esterno è come una carezza che accompagna lo spettatore in un processo d’immedesimazione e contrasta con la violenza dei suoni e delle immagini, che lasciano quel gusto amaro di straniamento che vive il protagonista nel 1984.

SIAMO LIBERI DI ESPRIMERCI, MA NON TROPPO
La rubrica dei ragazzi del liceo classico Muratori-San Carlo di Modena

E SE i social media arrivassero a condizionarci al punto tale di controllare le nostre stesse vite? Forse è già così. La tecnologia è ormai da tempo divenuta protagonista assoluta della nostra quotidianità. La sveglia? Ci pensa il telefono. Impegni della giornata? Basta controllare l’agenda elettronica. Voglia di musica? Il lettore musicale è lì per questo. Abbiamo tutto ciò di cui necessitiamo a distanza di un click, ma qualcosa continua a mancare: la nostra opinione personale non si trova su Internet. Davanti a una domanda soggettiva non sappiamo cosa rispondere, se non dopo avere controllato quale sia l’opinione pubblica. E così ricadiamo nel totale affidamento al vortice di informazioni proposte da Internet, spesso fallaci e manipolate, ma che sembrano diventare vere nel momento in cui la massa inizia a crederci. Inconsapevolmente, cediamo la nostra libertà di espressione ogniqualvolta decidiamo di adeguare le nostre opinioni a quelle, infondate, sostenute dalla maggioranza, solo perché comunemente accettate. La superficialità di tali giudizi è inevitabile. Infatti, in questa realtà virtuale, il pensiero è obbligato a seguire una struttura rigidamente binaria: o bianco o nero.
Ulteriori possibilità di interpretazione non sono contemplate e le opinioni divergenti vengono taciute. Volenti o nolenti, viviamo in un enorme 1984, popolato da infiniti Parsons e pochi Winston, tutti inconsapevolmente sottomessi a un onnipotente Grande Fratello.

Classe 4ªA Liceo Muratori-San Carlo
Sofia Martina Forni, Silvia Giacobazzi, Barbara Panza Federico Carrera, Chiara Cavani, Lucrezia de Biase, Elisabetta Fiandri

ANTIGONE

UNA ANTIGONE PERFETTA MA NON TROPPO
La recensione dei ragazzi del liceo classico Muratori-San Carlo di Modena

La scenografia è straniante ma efficace. L’atmosfera è opprimente e lugubre: scheletri distesi su barelle simboleggiano l’oggetto per cui Antigone follemente si batte, il cadavere del fratello, e il presagio del destino dei protagonisti. Gli uomini in lunghe tuniche sembrano prendersi cura dei corpi, mentre il re Creonte impone il divieto di sepoltura di Polinice, per cui la sorella sfiderà la morte. I colori dei costumi e le luci mettono in risalto i personaggi che parlano: il rosso contraddistingue il re, Antigone si presenta in nero e la timida sorella Ismene in bianco, ma nell’incontro con il supplizio la protagonista è in rosso e il suo lentissimo procedere sotto il peso del corpo del fratello evoca la passione di Cristo. La resa attoriale è penalizzata però da qualche sbavatura e dall’acustica del teatro. La dizione di Creonte non è sempre chiara. Ma se sconcerta un rutilante indovino Tiresia che sembra stentare nel proferire le battute, l’ultimo messaggero spezza suggestivamente le parole nel raccontare la morte di Emone, come a mimarne il suicidio, che non viene rappresentato, coerentemente con la tragedia antica. L’assenza dispiace per la credibilità emotiva del giovane figlio di Creonte. Nel suo confronto con il padre, i neon abbaglianti che scendono a formare una croce richiamano la divisione: padre e figlio non sono mai insieme nello stesso settore. I loro costumi rimandano all’Oriente e così i canti, di ispirazione indiana: inaspettati nel contesto, esprimono dolore. Del resto, lo spettacolo si apre e si chiude in un’ambientazione non classica. L’inizio è una surreale cena: i movimenti robotici dei commensali esprimono la quotidianità ma anche la rigidità della corte e mentre tutti si alzano Creonte resta seduto.
Nell’ultima scena un avvicendarsi e ripetersi di voci che si incalzano, ora confuse, ora illuminanti. I coreuti diventano luminari quando esaltano con i libri alla mano la grandezza dell’uomo, fisica e intellettuale. Le lunghe maniche del corifeo sembrano simboleggiare saggezza, ma anche il rifiuto di toccare, di partecipare in prima persona, in disaccordo con Creonte e in ossequio alla legge degli dei. Nel complesso i costumi, le luci, le musiche e i movimenti coreografici non tradiscono il testo, troppo bello per essere riscritto, ma può risultare fastidioso interpretarli nella contrapposizione fra antico e moderno. Dell’originale è mantenuto l’aforisma di Antigone, nata per condividere amore e non odio, ed è introdotta la citazione virgiliana dell’esecrabile fame dell’oro, recupero della funzione di insegnamento della tragedia per gli antichi cittadini ateniesi: Creonte pontifica sulla pericolosità del denaro e sul rispetto dovuto alle leggi dello stato. Gli stessi scheletri accostati sullo sfondo della condanna di Antigone ricordano le statuette degli avi nelle case romane, sorta di monito religioso degli antenati per i discendenti.

UNA PROTOEROINA CHE SI MOSTRA RIBELLE
La rubrica dei ragazzi del liceo classico Muratori-San Carlo di Modena
Nel contrasto con la sorella, Ismene dice che la donna deve essere sottomessa all’uomo, non può ribellarsi a chi è più forte, mentre Antigone sostiene il contrario. Nel colloquio emerge anche come le due giovani vivano una sorta di dannazione perché hanno perso padre e fratelli e non sono sposate, quindi manca loro una presenza maschile. Anche Creonte, re della città e zio della protagonista, quando Antigone si ribella la accusa di comportarsi da maschio, mentre l’uomo è lui. Egli afferma che bisogna difendere l’ordine costituito e non permettere che le donne abbiano la meglio.
Classe 4ªA Liceo Muratori-San Carlo
Chiara Acerbi, Samantha Bolognesi, Serena Carotenuto, Sofia Di Piazza, Fabio Fanelli, Olmo Giovannini, Samuele Martinelli, Gaia Panzavolta, Chiara Sanna, Letizia Solieri, Pietro Spaggiari, Anna Zironi

Hanno partecipato anche Alessia Belloni, Greta Benatti, Niccolò Chierici, Jenny Katiaj, Leonardo Liparulo