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Alternanza Scuola-lavoro Liceo Classico "Muratori-San Carlo"

La classe operaia va in paradiso

Interviste...

… agli attori a cura di Lorenzo Palazzi 

Lo spettacolo “La classe operaia va in paradiso” è stato rappresentato in prima nazionale al Teatro Storchi di Modena il 31 Gennaio per poi iniziare una tournée in tutta Italia. Dopo l’iniziale idea di Lino Guanciale e Claudio Longhi di lavorare sul film di Elio Petri hanno contattato Paolo di Paolo per la stesura del testo, con l’obiettivo non di imitare ma di rivedere totalmente l’opera. In seguito l’intera compagnia ha lavorato sul testo portando le proprie riflessioni, per questo motivo le risposte degli attori singoli rispecchiano le idee dell’intero gruppo. Abbiamo avuto la possibilità di porre qualche domanda agli attori sul messaggio che vogliono far passare e sulla loro visione del lavoro oggi e negli anni in cui è stato realizzato il film.

Perchè scegliere di trarre ispirazione da un film che tratta un tema non attuale per noi, in quanto lontano nel tempo?

In realtà il tema è molto attuale, di Lulù Massa ce ne sono ancora oggi. Possiamo vedere nella condizione dei lavoratori Amazon la situazione delle fabbriche di allora nel mondo moderno. Il protagonista è l’esempio del lavoratore che crede che la sua forza fisica e la sua capacità di fare concorrenza agli altri siano le uniche fonti di successo. Oggi come allora pensiamo soltanto di essere il nostro lavoro, e che il nostro compito sia quello di rendere al meglio in quanto macchina. Il mondo in cui viviamo ha cominciato a plasmarsi proprio in quell’epoca.

La spinta eversiva che portava la voglia di cambiare le cose, di ambire a una trasformazione, oggi dove si colloca? E se si colloca, come?

Probabilmente si colloca, ma in sordina. Non riusciamo a prendere posizioni forti nemmeno riguardo ad argomenti e questioni che pure ci toccano direttamente. In una struttura è più facile che la spinta sovversiva risulti smorzata, tendiamo ad appiattirci e a risultare quindi inattivi anche se le questioni ci interessano direttamente. In più il rischiare è strettamente legato alle possibilità economiche, queste mitigano l’istinto eversivo. In riferimento alla spinta interiore quello che connota la società attuale è l’essere materialisti, siamo frenati dal volere qualcosa di concreto facendo così svanire i sogni aleatori.

Cosa manca quindi al popolo di oggi per poter protestare contro qualcosa che non funziona?

Oggi si va a scuola per essere pronti a cambiare qualcosa, ma spesso interviene la paura che blocca l’uomo; questa apparentemente può essere spezzata, materialmente è molto più difficile. In più in questo momento storico mancano gli ideali, gli studenti sapevano con precisione cosa dovesse subire un radicale cambiamento, noi al contrario siamo più nichilisti: potremmo decidere di cambiare e allo  stesso tempo stiamo bene nella nostra condizione attuale. Siamo nella parte più fortunata del mondo, sotto ogni punto di vista, e possiamo quindi permetterci di fare ciò. In più nessuno ci darebbe sicurezze ora, manca l’appoggio reciproco che gli studenti avevano al tempo delle grandi proteste. È difficile oggi pensare di cambiare il mondo, ma è una riflessione che se si diffondesse darebbe grandi spunti di miglioramento. Come nel film, però, tutti sembrano avere le idee chiare quando invece non è così perché la realtà è complessa.

Perché secondo voi si è creata questa situazione?

Il sogno rivoluzionario muore quando ci si pone una domanda:” Perché devo pretendere qualcosa in prospettiva, se già adesso posso migliorare la mia condizione?”. Così in un attimo si diventa “semplici” riformisti. Quello che ci ferma è la parvenza di una leggera stabilità, si è radicato col tempo il concetto di “non va benissimo, ma finché si può andare avanti così…”. Agisce chi si può permettere di perdere qualcosa o chi non ha nulla da perdere. Gli studenti di quel periodo fomentavano la protesta avendo sicurezze e appoggio da parte dei compagni, oggi c’è, ad esempio, la forte paura di non trovare lavoro.

 Dove sta dunque il paradiso?

Alla fine del film Lulù racconta il suo sogno: gli operai avvolti nella nebbia rappresentano le loro ombre nell’aldilà. Il paradiso è una provocazione, perché le persone lottano per ottenerlo e non ci riescono, tornano sempre alla macchina e in sostanza è lì che si fanno le rivoluzioni. Non c’è un’esatta traduzione di cosa sia, per ogni personaggio o gruppo viene identificato con qualcosa di diverso e lo spettatore stesso può trovare il suo.

Avete già ricevuto qualche gratificazione dalla realizzazione di questo spettacolo?

Risponde Lino Guanciale:

Sicuramente a livello personale è stato gratificante e interessante la parte che ha preceduto la realizzazione vera e propria, ovvero lo studio che sta dietro allo spettacolo. Non abbiamo operato come meri imitatori, ma ci siamo proposti di offrire al pubblico la possibilità di cogliere le riflessioni di chi ha girato il film, di chi l’ha visto e anche le nostre.

Risponde Giacomo Pedini:

Dal mio punto di vista è interessante la sfida conoscitiva, una volta smesso di studiare non  sempre il lavoro permette di viverla.

 

… agli attori a cura di Sofia Martina Forni

La classe operaia va in paradiso: come?
Un’intervista agli attori che mette in discussione l’apparente lontananza dei temi trattati

Lo spettacolo La classe operaia va in paradiso, forse… è stato rappresentato in prima nazionale al Teatro Storchi di Modena il 31 Gennaio, per poi iniziare una tournée nazionale. Proposto come una trasposizione in chiave teatrale dell’omonimo film di Elio Petri, tale spettacolo è interpretato dalla compagnia di attori del regista Claudio Longhi, mentre la stesura del testo appartiene allo scrittore e drammaturgo Paolo di Paolo. Una produzione apparentemente disomogenea, ma in realtà frutto della collaborazione di un gruppo di artisti coeso, che vede nella condivisione del proprio sistema di valori il principale punto di forza, una prerogativa essenziale al fine della riuscita dello spettacolo. Emerge dunque da un confronto con la compagnia un’impostazione ideologica condivisa e fortemente marxista, che crede nella grande attualità della tematica dello spettacolo.

Perchè scegliere di ispirarsi a un film così lontano nel tempo, che narra di un mondo apparentemente lontano dai giorni nostri?

Hai detto bene, apparentemente. In realtà il tema di questo spettacolo è incredibilmente attuale: il mondo in cui viviamo oggigiorno ha cominciato a plasmarsi proprio in quell’epoca, all’interno di quelle fabbriche. Di Lulù Massa ce ne sono ancora oggi… Egli rappresenta l’archetipo di colui che crede che le sue uniche fonti di successo siano la sua forza fisica e la sua capacità di fare concorrenza agli altri. Allo stesso modo, noi pensiamo di essere soltanto il nostro lavoro, di essere una macchina il cui unico compito è performare meglio. E d’altra parte, è proprio questa la richiesta che ci viene fatta: essere individui pro-attivi, dimostrare di essere in grado di spingersi oltre i propri limiti, di essere capaci di fare qualsiasi cosa. Eppure, nessuno di noi è Superman.

Se la realtà dei lavoratori di oggi è molto simile a quella dell’epoca, perché ormai nessuno più si propone di lottare per cambiare le cose?

Quella spinta eversiva che dominava il mondo di allora forse nel tempo è svanita. Ciò che manca è il sistema di ideali: nella società di oggi tendiamo a essere nichilisti, a pensare che non prendere posizione rappresenti per noi l’alternativa migliore. Il problema che ci spinge a non agire è dunque la parvenza di una leggera stabilità.

 Il “non va benissimo, ma finché si può andare avanti così…” è diventato un motivo protagonista dei giorni nostri. Come spiegate questo radicale cambiamento rispetto alla realtà rappresentata nel film?

La società consumistica di oggi contribuisce a generare in ognuno di noi una sensazione di appagamento, seppur effimero e senza dubbio apparente. Il benessere è stato messo a buon mercato: così, l’uomo non riesce a mettere a fuoco la sua reale condizione, dominato dall’illusione di appartenere a un altro mondo sociale. Eppure, il culto del successo associato all’acquisizione di beni non è altro che un imbroglio ai nostri danni.

Alla luce di queste riflessioni, qual è il messaggio che volete trasmettere al pubblico?

È difficile riuscire a immaginare un modo per poter cambiare la società di oggi. Forse proprio l’esistenza della possibilità di cambiare è il messaggio di questa produzione teatrale. Speriamo che lo spettatore, ispirato dai movimenti rivoluzionari riportati nello spettacolo, se ne renda conto. Sicuramente le lotte che hanno caratterizzato gli anni ’70 non hanno avuto gli esiti sperati, ma d’altro canto non sono nemmeno state tutte perse. Ci sono stati anche dei successi: il cottimo, ad esempio, non c’è più. Insomma, qualcosa lo abbiamo guadagnato, ma dobbiamo ancora guadagnare qualcosa di più: è questo il messaggio che speriamo che passi.

In conclusione, qual è il paradiso a cui il titolo fa riferimento?

Il paradiso altro non è che una provocazione nei confronti della gente che lotta, ma non ottiene nulla. Non c’è una traduzione precisa: per i sindacalisti il paradiso è il riconoscimento dei diritti dei lavoratori da parte dello Stato, per Massa il paradiso altro non è che il “culo della Adalgisa”.

Avete già ricevuto delle gratificazioni da questo spettacolo?

È stato gratificante realizzare tutto lo studio che sta dietro a questo spettacolo: rifare un film tale e quale è roba da meri imitatori. Si tratta di uno spettacolo che si propone di offrire al pubblico l’opportunità di viaggiare dietro alle riflessioni che ci sono state a monte di chi ha fatto il film, di chi lo ha visto, delle nostre stesse riflessioni, ed è bello costruire un lavoro che ai giovani insegna qualcosa. Finora il percorso ha dato delle opportunità di studio e questo è stato senz’altro coinvolgente.

 

… al drammaturgo Paolo di Paolo a cura di Luca Grassi

Signor Paolo di Paolo come è nata l’idea dello spettacolo?

La genesi di questa produzione è particolare: Lino Guanciale, attore di ERT, ha proposto a Claudio Longhi lo spettacolo e questo si è rivolto a me chiedendomi di scrivere un testo su questa trama; infine la compagnia insieme a Longhi l’ha rimaneggiata e adattata introducendo anche arrangiamenti musicali.

Secondo lei quali sono le ragioni che possono giustificare il riproporre oggi il film di Petri, in una realtà storica, sociale ed economica così lontana e diversa da quella del 1971?

Bisogna iniziare dicendo che la mentalità di un giovane dei primi anni Settanta è completamente diversa da quella di un adolescente del Ventunesimo secolo perché  questa nuova generazione non può apprezzare l’opera del 1971 in quanto  materialista e concreta, impossibilitando i sogni a crescere, la situazione è invece diversa da quella presente all’uscita dello spettacolo. Il mio intento era di prendere il film “La classe operaia va in paradiso” e rimaneggiarlo per riproporre un messaggio che in primo momento non sembra attuale ma se ci si riflette bene è estremamente attuale: lo sfruttamento del lavoro.

Che rapporto c’è stato tra regista, compagnia e scrittore nella stesura del testo? E quale è stato il suo ruolo?

La compagnia ha collaborato molto alla messa in scena dello spettacolo, il mio compito è stato quello di scrivere un testo che sarebbe poi stato adattato dalla compagnia e dal regista Claudio Longhi.  Il regista lavora quindi a stretto contatto con gli attori della compagnia. Lino Guanciale pur essendo attore è anche ideatore della messa in scena e quindi talvolta anche “regista”.

Il testo da lei pubblicato è lo stesso delle rappresentazioni teatrali?

In realtà no, sono due testi diversi. Mi spiego: la mia produzione è un testo drammaturgico senza sceneggiatura, più vicino ad una narrazione che a un copione. La compagnia ha provveduto in seguito ad adattarlo alle esigenze; infatti questa sera vado ad assistere allo spettacolo ma non so quanto sia simile a quello da me scritto.

Quali sono stati i problemi maggiori che ha incontrato nel trascrivere per il teatro la sceneggiatura dal film? Come li ha risolti?

Sicuramente il problema maggiore è stato non copiare il film ma rielaborarlo in modo personale pur avvertendo la differenza di epoca chiaramente visibile nei costumi e nel linguaggio.

Che regole o strategie ha seguito la scrittura?

L’obiettivo da me prefissato era quello di richiamare la letteratura degli anni Settanta senza incappare in anacronismi, cercando di rimanere il più fedele possibile al contesto storico, riprendendo alcuni dialoghi di Petri e utilizzando citazioni di altri autori rilevanti degli anni Settanta.

In che misura il testo doveva essere realistico e in che misura no?

Il testo doveva essere il più aderente possibile agli anni Settanta nei modi di comportarsi, parlare e vivere, ma non deve essere semplicemente un portare sul palco la rappresentazione piatta della realtà, piuttosto dinamica e innovativa. Inoltre non bisogna sempre accontentare il pubblico ma stupirlo e indurlo così a una riflessione personale.

Che cosa si aspettava di suscitare nello spettatore a livello emotivo e razionale?

L’intento era di creare alienazione, riflessione nell’ascoltatore e anche immedesimazione, ma ho cercato di evitare di accontentare il pubblico, stimolandolo alla riflessione.

Quali sono i modelli culturali cui si è fatto riferimento nella scrittura, sia nel senso dei modelli di scrittura teatrale, sia nel senso di riferimenti ideologici e filosofici?

I modelli che ho scelto di utilizzare sono personaggi il cui pensiero non fosse anacronistico con l’epoca della “classe operaia” quali la ragazza Carla di Pagliarani e Brecht.

 

… al drammaturgo Paolo di Paolo a cura di Lucrezia De Biase 

La classe operaia va in paradiso è una produzione di ERT liberamente ispirata all’omonima pellicola cinematografica di Elio Petri e Ugo Pirro. Tale rappresentazione offre uno sguardo interessante sulla realtà di anni ormai molto lontani nel tempo rispetto ai nostri, durante i quali, però, nasce il forte interesse per un tema che oggi più che mai è attuale, ovvero il lavoro e le problematiche ad esso collegate. Lo spettatore, perciò ha l’occasione di riflettere sulla propria situazione lavorativa messa a confronto con quella rappresentata sul palco e, talvolta, di rendersi conto che le condizioni dei lavoratori non si sono sempre evolute in meglio.

Lo spettacolo è nato da un’idea dell’attore Lino Guanciale, che ha personalmente proposto al regista Claudio Longhi, con cui collabora da anni, di realizzare un’inedita versione teatrale di uno dei film più contestati nel panorama cinematografico italiano. Il regista emiliano anche in questa occasione ha scelto di lavorare con la compagnia teatrale a cui affida i propri progetti da lungo tempo e, come avviene di norma all’interno di questo particolare gruppo teatrale, gli attori stessi hanno contribuito alla caratterizzazione del proprio personaggio e hanno partecipato alla stesura della sceneggiatura finale. Il testo originale di questo spettacolo è stato commissionato allo scrittore di narrativa Paolo Di Paolo, il quale in rare occasioni aveva già preso parte alla realizzazione di una messa in scena teatrale come dramaturg. L’autore ha, quindi, dato vita con le parole ad un’idea comune tra egli stesso, il regista e gli attori, costruendo uno scritto che fosse fedele alle idee di Longhi in particolare, ma che rispettasse anche la sua ideologia. Di Paolo, infatti, ha più volte affermato che con il testo de La classe operaia va in paradiso ha scelto deliberatamente di non accontentare in ogni punto della narrazione le aspettative dello spettatore, ma ha preferito distaccarsi dal semplice teatro realista per avvicinarsi a quello dell’avanguardia, che sconvolge e stupisce il fruitore dell’opera, dal momento che la rappresentazione non doveva confortare il pubblico ma indurlo alla riflessione e ad un’analisi critica della situazione attuale.
A seguito di una lunga fase di preparazione dello spettacolo, durante la quale sono stati esaminati a fondo gli appunti di regia del film originale e tutti i documenti risalenti a tale epoca, la compagnia ha scelto di non limitarsi a replicare la sceneggiatura della pellicola in un ambiente diverso o fermarsi ad un’immagine piatta e “scolorita” della vita reale ma, pur rimanendo conforme alla natura del film, ha proposto una rielaborazione molto personale dei concetti fondamentali e ha fornito un punto di vista nuovo sul tema trattato originariamente. Inoltre, è stato aggiunto alla rappresentazione un prologo del tutto inedito, in cui il tema della sicurezza sul lavoro è sviluppato e allargato a tutte le epoche storiche dall’avvento delle industrie. Le novità, però, non hanno privato la rappresentazione degli snodi fondamentali per lo svolgimento della narrazione, le scene cruciali sono state messe in scena con una particolare attenzione per i dettagli.
Il lungo periodo di allestimento di tale opera ha garantito un quadro perfetto del decennio in cui è ambientata poiché ogni minuzia è stata a lungo curata in modo che non risultassero al termine della preparazione anacronie ed errori stilistici. Di questo aspetto si è occupato Paolo Di Paolo, il quale aveva particolare interesse nel rendere il linguaggio dei personaggi adeguato all’epoca, ricco di termini diffusi in quel periodo legati alla politica e alle lotte sociali. Per realizzare tale proposito, l’autore ha realizzato una ricerca mirata a ritrovare nella letteratura italiana alcuni modelli di riferimento, ad esempio Elio Pagliarani, ai quali ispirarsi per la costruzione dei dialoghi, ma anche dai quali trarre citazioni da inserire nella sceneggiatura.

Immaginare la locandina dello spettacolo...

La proposta iconografica per la locandina dello spettacolo realizzata da Alice Gibertini, Luca Grassi, Caterina Bizzarri, Lucrezia De Biase, Silvia Giacobazzi

Film e spettacolo: il confronto

Il confronto di Federico Carrera

Dire la verità è un atto rivoluzionario (Pier Paolo Pasolini)
Ovvero: come cambiare il lavoro creando capolavori

All’inizio degli anni settanta, uno dei decenni più travagliati della storia del nostro paese, Elio Petri e Ugo Pirro decidono di lavorare ad una trilogia ideologica, ovvero collegata non tanto per gli avvenimenti ma, per lo più, per le idee politiche e sociali rappresentate in ciascuna pellicola.  Dopo il successo del primo capitolo, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, del 1970, è il turno de La classe operaia va in paradiso, che vuole raccontare, in maniera oggettiva, la situazione degli operai, prendendo come protagonista un operaio stakanovista che, a seguito di un incidente sul lavoro, inizia ad aprire gli occhi su quanto siano basse le condizioni lavorative all’interno della sua fabbrica. Petri era uno dei tanti registi-intellettuali di film politici, molto operativi in Italia tra gli anni sessanta e settanta, che erano destinati ad essere criticati sia dalla desta che dalla sinistra: dunque La classe operaia si preannunciò, sin dalla lavorazione, un film maledetto. Ma questo non fermò il genio di Petri, che aveva come unico scopo quello di mostrare a tutti gli spettatori la figura dell’operaio in fabbrica, il concetto dell’alienazione e un’analisi concreta delle condizioni lavorative. Quarantasette anni dopo, Claudio Longhi, direttore del teatro stabile dell’Emilia-Romagna, decide, affiancato dalla sua compagnia di attori fedeli, tra cui spicca Lino Guanciale, e dal drammaturgo Paolo di Paolo, di riproporre le tematiche del film di Petri, adattandolo, in parte stravolgendolo, cercando di mantenere il messaggio originale pur ponendo una domanda essenziale: sono passati quasi cinquant’anni, ma la situazione dei lavoratori è ancora come quella descritta da Petri e Pirro o è veramente migliorata?
Nella rappresentazione della storia, il metodo teatrale e il metodo cinematografico differiscono, partendo dalla genesi. Da una parte abbiamo due grandi intellettuali di sinistra, che sentono l’urgente necessità di fare un film d’inchiesta, politico, seppur neutrale, e provocatorio. Dall’altra abbiamo Paolo Longhi, celebre regista, che vuole adattare teatralmente, dopo quasi cinquant’anni, il capolavoro di Petri, ai giorni nostri, facendo tornare l’eco di quelle ideologie e di quei movimenti, sottolineando la forte componente nichilistica dei nostri tempi. Due genesi diverse portano a due risultati diversi. Il film di Petri viene consacrato, dopo qualche tempo, a capolavoro didascalico del cinema italiano: egli è riuscito a trasmettere, attraverso il rigore delle inquadrature, dei suoni e della composizione scenica, la sensazione di alienazione e smarrimento operaia. Longhi invece, riadattando il film, aggiunge non solo alcune scene di realizzazione del film (dialoghi tra Pirro e Petri) e di reazione ad esso (spettatori negli anni ’71, ’76 e ’17), ma anche dibattiti critici e intermezzi musicali, forse allontanandosi un po’ da quello che era l’intento di Petri e Pirro, costruendo un ottimo spettacolo teatrale, molto apprezzabile, ma che non trasmette la stessa alienazione, la stessa stanchezza e, soprattutto, le stesse idee. Dunque, mettendo a diretto confronto film e spettacolo, ci si trova davanti due opere quasi diverse tra loro, che condividono solo alcuni punti, e che risultano ottime sotto diversi punti di vista: come il film trionfa ideologicamente, così lo spettacolo riesce perfettamente ad alleggerirne la pesantezza, introducendo efficacemente intermezzi comici e musicali.
Alla base delle due opere troviamo anche le ispirazioni culturali dei due registi, mentre Longhi si lascia ispirare da Marx e Brecht, Petri sembra condividere solo le idee del primo. Infatti nel suo film, tralasciando la critica tipicamente marxista all’alienazione, Petri non cita alcun artista in particolare, rimanendo rigoroso nel suo stile didascalico. Una cosa è certa, egli rigetta Brecht, che presuppone un distacco tra attore e pubblico, sposando il modello aristotelico, tipico del cinema, mirando a coinvolgere il più intensamente possibile gli spettatori, facendoli immedesimare nella figura del protagonista.

Il confronto di Elisabetta Fiandri

Petri e Longhi: due intellettuali a confronto

La messa in scena de La classe operaia va in paradiso, che ha recentemente debuttato al teatro Storchi di Modena, ha dato prova del fatto che per Claudio Longhi e la sua compagnia è ancora una volta essenziale il credo del loro percorso artistico “uno spettacolo ha tante mani ma l’idea è del regista”. Una sfida non facile quella di Longhi voler mettere in scena, dopo 46 anni, uno spettacolo tratto liberamente da un film sull’alienazione operaia nell’Italia perbenista e borghese degli anni ’70, perché esige necessariamente un confronto con la pellicola cinematografica, lo stesso Petri e le reali possibilità della compagnia teatrale. 
L’intento registico dei due autori appare infatti ben diverso, testimonianza evidente del lavoro autonomo e indipendente. Se da una parte Petri, con puro gusto narrativo, si limita alla descrizione oggettiva di un mondo sia secondo una prospettiva più umana, rispetto ad altri intellettuali di sinistra dell’epoca, sia secondo una posizione neutrale, Longhi introduce una riflessione personale finalizzata a sensibilizzare o rendere consapevole lo spettatore della drammaticità della situazione. Pur essendo di matrice comune l’impronta marxista dei registi il modo di descrivere una stessa realtà appare dunque ben lontano.
Il mondo teatrale di Longhi e quello cinematografico di Petri si differenziano anzitutto per l’aspetto di immedesimazione nei personaggi. La drammaturgia di Longhi-Di Paolo infatti, ispirandosi al teatro epico di Brecht, effettua spezzature di vario genere, come intermezzi musicali o scene meta-teatrali, al crescendo drammatico, limitando così gli effetti emotivi e stimolando nello spettatore una riflessione più razionale. Lo spettacolo porta indubbiamente a interrogarsi se quel mondo operaio sfruttato non esista davvero più oggi o se abbia assunto forme mascherate, ancora più pericolose. Il richiamo all’ attualità, non senza una lieve vena provocatoria, dunque o le reazioni del pubblico al film durante il corso degli anni o ancora i commenti della critica sono solo alcuni elementi della reinterpretazione teatrale.
La pellicola di Petri invece, palma d’ oro a Cannes, venne consacrato, nonostante le feroci critiche, a capolavoro didascalico del cinema italiano. Egli è riuscito a trasmettere, attraverso il rigore delle inquadrature, dei suoni e della composizione scenica, la sensazione di alienazione e smarrimento della classe operaia. Col supporto delle musiche forti e decise di Ennio Morricone e sulla base di una finissima analisi psicologica dei personaggi, aspetti in parte presenti anche nello spettacolo, Petri sembrava essere alla ricerca di un’immedesimazione vera e propria nella condizione del protagonista Lulù Massa che, come il pubblico, vive quell’alienazione, quel senso di bruta oppressione e il disordine tipici del movimento operaio.
Può darsi però che nella resa teatrale la carica e la spinta rivoluzionaria del film venga a meno, in altre parole si perda l’intensità del messaggio che viene smorzato e reso più piacevole per il pubblico anche grazie all’ aspetto di rinnovamento linguistico. Precisamente nel film la stesura, che in originale era in romano, presenta dialoghi in dialetto lombardo, ma Longhi, in particolare la drammaturgia di Paolo Di Paolo, al fine di una maggiore comprensibilità e gradevolezza per gli spettatori ha evitato questa operazione linguistica. Ha optato piuttosto per una sceneggiatura in italiano corrente puntinata di qualche espressione dialettale che suscita il riso. E’ possibile cogliere dunque una vena comica teatrale, indubbiamente assente nella pellicola, che persiste in tutta la durata dello spettacolo alleggerendone quindi i toni pesanti e caldi dal punto di vista umano e sociale.
In definitiva, gli aspetti peculiari e tipici dei singoli registi sottolineano come la classe operaia, pur vista secondo intellettuali dello stesso ramo, susciti ancora oggi varie reazioni e spunti di riflessione. Gli spettatori attuali sono portati a interrogarsi se si trovano dalla parte dei padroni sfruttatori o da quella degli sfruttati, secondo una tipica opposizione della lotta operaia che non è morta, ma ci raggiunge direttamente dagli anni ’70 sulla scia di un eco rivoluzionario e sulla storia di Lulù Massa. 

Il confronto di Chiara Cavani

La classe operaia va in paradiso: pellicola e spettacolo a confronto

Risale al 1971 il film La classe operaia va in paradiso da cui Di Paolo e Longhi hanno liberamente tratto lo spettacolo teatrale messo in scena per la prima volta al Teatro Storchi la sera del 31 gennaio 2018. Alla sua uscita nelle sale cinematografiche, nonostante i premi vinti[1] e il cast rinomato che vede nel ruolo di protagonista Volonté, la pellicola fu a lungo mal vista e suscitò un’ondata di polemiche. Questa reazione venne spiegata dallo stesso Petri che affermò “Con il mio film sono stati polemici tutti, sindacalisti, studenti di sinistra, intellettuali, dirigenti comunisti, maoisti. Ciascuno avrebbe voluto un’opera che sostenesse le proprie ragioni: invece questo è un film sulla classe operaia”. Quest’affermazione chiarisce l’intento di Petri, che è quello di descrivere in maniera oggettiva la situazione di quegli anni senza mai schierarsi. La messa in scena di Longhi appare meno oggettiva e maggiormente finalizzata a sensibilizzare il pubblico sul tema dei lavoratori. I due registi sembrano quindi in sintonia, ma si servono di metodi diversi per descrivere una stessa realtà.
Il modo teatrale e quello cinematografico si diversificano sia per rigore nella narrazione, sia per genesi. Da una parte Petri e Pirro, intellettuali di sinistra, sentono l’urgente necessità di dar vita ad un film che descriva la condizione operaia e la loro pellicola vuole essere un film politico, seppur neutrale, e provocatorio. Dall’altra Longhi tenta dopo molti anni di far tornare l’eco di quelle ideologie e di quei movimenti, sottolineando la componente nichilistica dei nostri tempi. Avendo genesi diverse è inevitabile trovare differenze anche nei risultati. Il film di Petri viene classificato, dopo qualche tempo e nonostante le polemiche, come capolavoro del cinema italiano: egli riesce nell’intento di trasmettere, attraverso il rigore della narrazione, i suoni e la composizione scenica, la sensazione di alienazione e smarrimento tipica della classe operaia. Longhi invece, reinterpretando liberamente il film, riesce nell’intento di renderlo più piacevole e meno pesante agli occhi del pubblico ma finisce per sconvolgerne la trama aggiungendo alcune scene di realizzazione del film[2], reazioni alla sua uscita nelle sale[3] ma anche dibattiti critici e intermezzi musicali. Queste inserzioni contribuiscono senza dubbio a rendere la messa in scena di Longhi originale rispetto alla pellicola cinematografica, ma egli rischia forse di allontanarsi un po’ troppo dall’intento di Petri e Pirro, costruendo un ottimo spettacolo teatrale che però fallisce nel trasmettere la stessa alienazione, la stessa stanchezza e, soprattutto, le stesse ideologie di quegli anni.
Nonostante Longhi non sia riuscito completamente a comunicare l’alienazione della classe operaia, ha senza dubbio avuto successo nel rendere lo spettacolo piacevole e contemporaneo. Uno dei grandi obiettivi del regista era infatti quello di far capire al pubblico che nonostante siano passati molti anni la realtà descritta da Petri non è poi così lontana come si tende a pensare. Per porre l’attenzione su questo concetto all’interno della messa in scena vengono inseriti elementi che rimandano alla situazione lavorativa attuale, citando ad esempio gli operai di Amazon o in generale il precariato attuale[4].  Altri elementi che rendono lo spettacolo teatrale autonomo rispetto al film riguardano il prologo e la prima scena, che richiamano rispettivamente il teatro classico[5] e l’evoluzione della condizione lavorativa dagli anni Settanta ad oggi. Perseguendo l’obiettivo di rendere indipendente la sua reinterpretazione, Longhi inevitabilmente toglie alcuni elementi al film, per aggiungerne altri. Nella resa teatrale infatti si perde il rigore della narrazione a causa degli intermezzi, e confusione e oppressione tipiche del film hanno un peso meno rilevante.
Tra le due rappresentazioni vi è anche una differenza di ispirazione che sfugge ad uno sguardo superficiale, ma risulta evidente in seguito ad un’analisi più approfondita. Grande ispirazione di Longhi è infatti Bertolt Brecht, a cui si deve la nascita di un “teatro epico”[6] in grado di rappresentare le scene con naturalezza. Questa visione del teatro prevede che la scena non incarni un avvenimento ma lo narri, non limitandosi a coinvolgere lo spettatore ma stimolandolo ad un’azione, una presa di coscienza critica nei confronti della realtà. Petri invece, facendo un quadro oggettivo della situazione, non si ispira a questo metodo teatrale, seguito invece dalla compagnia che ha eseguito la reinterpretazione libera del film.
Confrontando i due diversi registi e le due produzioni possiamo notare come entrambe siano originali ed autonome, e riescano ciascuna nel dare una diversa interpretazione della stessa realtà, in modo tale da offrire punti di riflessione e suscitare nel pubblico effetti differenti.

[1] Ad esempio vinse il premio per il miglior film al Festival di Cannes 1972.
[2] Dialoghi tra Pirro e Petri prima e durante la realizzazione del film.
[3] Opinioni degli spettatori dal 71’ ad oggi.
[4] Vengono citati i call center, Amazon, gli stagisti ecc.
[5] Lettura di un passo di Esiodo in greco sul tema del lavoro.
[6] Contrapposto a quello Aristotelico e a quello borghese.

Critici teatrali per un giorno: le recensioni

La recensione di Francesca Degli Esposti

Ha debuttato il 31 Gennaio al Teatro Storchi lo spettacolo teatrale La classe operaia va in paradiso, dall’omonimo film di Elio Petri. Lo spettacolo non vuole essere una trasposizione della pellicola cinematografica, ma un’attualizzazione, ben riuscita, del tema del lavoro operaio.
Lulù Massa, interpretato da Lino Guanciale, è il cosiddetto uomo-macchina, concentratissimo nel suo lavoro e non molto amato dagli altri operai, fatto che però non lo tocca minimamente. Per Massa infatti l’importante è ottenere un cottimo sempre più alto, riuscendo così a pagare gli alimenti alla ex moglie e a mantenere la nuova fidanzata Lidia (interpretata da Diana Manea), con la quale ha inizialmente un rapporto burrascoso al punto che la tradisce con Adalgisa, una sua collega (interpretata da Donatella Allegro).
Fuori dalla fabbrica si battono studenti universitari, che vogliono l’abolizione del cottimo, e quindi non più un operaio succube della macchina, e i sindacalisti, che invece cercano una via di mezzo tra il cottimo e la sua abolizione. Lo stesso Lulù, a causa di un infortunio sul lavoro, diventerà l’emblema della lotta per le idee politiche di questi, e per la prima volta costruirà un proprio pensiero, schierandosi dapprima con gli studenti. 
Il regista Claudio Longhi e il drammaturgo Paolo di Paolo sono riusciti a rappresentare una messa in scena che alleggerisce il film. A differenza di questo infatti nello spettacolo sono presenti più battute di spirito, o battute che semplicemente generano un sorriso, senza però perderne il messaggio e anche la forte critica che aveva suscitato negli anni ’70. Molto interessante è la presenza, recitata, degli sceneggiatori che raccontano vari passaggi nella rappresentazione scenica e del pubblico di allora, che giudica e commenta il film appena visto. Oltre a questo punto, anche la presenza di un sottofondo musicale dal vivo, di Filippo Zattini e canzoni interpretate da Simone Tangolo, contribuisce ad un coinvolgimento del pubblico.
La difficoltà, ma superata, di questo spettacolo è stata quella di cogliere e rappresentare un tempo passato che noi percepiamo come molto lontano da noi. Per questo motivo probabilmente si può avere una piena comprensione dello spettacolo solo se si conosce il film o l’epoca rappresentata.
Il senso di tutto questo è quindi raccontare della condizione lavorativa, del lavoro vero e proprio, che purtroppo ancora oggi, anche se per motivi differenti, è un problema e un’emergenza. Ed ecco la ragione per cui lo spettacolo teatrale non è una fotocopia della pellicola cinematografica, “(…) più forte è il desiderio di narrare della perdita di una capacità, quella di narrare della perdita di una capacità, quella di leggere e interpretare la realtà.”

La recensione di Leonardo de Robertis

Una Produzione ERT potente che vede il regista Claudio Longhi e la compagnia di attori con cui ha lavorato cimentarsi in un duplice impegno.
Partendo dal omonimo film, La classe operaia va in paradiso di Elio Petri e Ugo Pirro, Paolo Di Paolo e il regista costruiscono uno spettacolo che mira ad analizzare il mondo del Lavoro di Ieri e confrontarlo con un Oggi nel quale, per quanto si parli di ventunesimo secolo, persiste la presenza di situazioni simili.
Lino Guanciale, nei panni di Lulù Massa si trova a ripercorrere la vita di un cottimista nel contesto di crisi che segue il boom economico degli anni sessanta; un personaggio a tutto tondo che viene inizialmente presentato come uno stacanovista che si spacca la schiena pur di guadagnare qualcosa in più per se e per la sua amante Lidia, interpretata da Diana Manea.
Ormai schiavo di questo alienante e ripetitivo lavoro in fabbrica, uno spiacevole avvenimento lo porta però a cambiare il suo punto di vista sul cottimo e Il suo conseguente licenziamento lo porterà gradualmente alla pazzia.
Negli incontri con il Militina, ex operaio impazzito, interpretato da Franca Penone, si tocca spesso l’argomento della pazzia arrivando a trattare anche la complessa concezione di paradiso presentata dal film del 71’, che è possibile rimanga oscura anche alla visone dello spettacolo.
Lo spettacolo, riesce, come il film da cui è ispirato a tracciare un’ immagine pura e distaccata della classe operaia, dirigenziale e degli studenti attraverso l’analisi del protagonista e del contesto in cui vive e lavora. L’attualizzazione è però scopo riuscito della sola rappresentazione teatrale; questo infatti non solo riporta la storia per come è ma la riesce a rendere contemporanea.
Presentata non solo come una trasposizione teatrale del film dallo stesso regista prima dell’uscita, rispetta il pronostico. Vi è infatti una forte componente meta-teatrale nella costruzione dello spettacolo; questo incornicia la storia di Lulù ne contesto di produzione del film negli anni settanta con la presenza in scena di Nicola Bortolotti e Michele dell’Utri, nei panni di Petri e Pirro e presenta numerose e differenti considerazioni del film da parte di spettatori in diverse epoche.
La grottesca storia di Lulù è oltretutto alleggerita dalla presenza di intermezzi musicali impegnati e rivisitati di Filippo Zattini interpretati da Simone Tangolo che muovendosi in mezzo alla folla fa sentire il pubblico partecipe della scena.
Risulta in conclusione uno spettacolo dal copione complesso ricco di citazioni raffinate a volte difficili da cogliere dallo spettatore ma dal messaggio chiaro, attuale e piccante.

La recensione di Maria Chiara Artioli

Nel 1971 veniva proiettato nelle sale cinematografiche il film “La classe operai ava in paradiso”, secondo di tre lavori del regista Elio Petri. Quarantacinque anni dopo E.R.T. produce uno spettacolo il cui copione nasce da un lavoro a tre mani del drammaturg Paolo di Paolo, del regista Claudio Longhi e dell’attore Lino Guanciale.
Interpretato da quest’ultimo, l’operaio Lulù Massa trova un suo spazio nel XXI secolo. Al Teatro Storchi rivive dal 31 gennaio al 4 febbraio 2018 il grottesco ambiente delle fabbriche in cui gli operai lavoravano a cottimo, come strumenti di produzione, fino a diventare vere e proprie macchine. È il caso del protagonista, che anche fuori dall’ambiente lavorativo si portava dietro l’impostazione dei gesti che ripeteva dal mattino quando era ancora buio alla sera quando lo era già (tema efficacemente reso dalla performance di Guanciale). Lulù affronta un proprio percorso di pensiero, che lo porta ad abbandonare i dirigenti per schierarsi dalla parte delle idee, quelle degli studenti universitari, fino a farsi licenziare per motivazioni politiche. Il personaggio passa così dalla parte opposta rispetto alla sua posizione iniziale, pur mantenendo il contrasto con i sindacalisti, proprio degli studenti come dei dirigenti.
Viene suggerito allo spettatore come un contesti che appare lontano, anche perché cronologicamente distante, sia in realtà attuale, camuffato dagli asettici ambienti moderni. Si pensi, ad esempio, alle condizioni dei lavoratori Amazon. Oggi la spinta eversiva che animava gli studenti del film, aggrappati ai cancelli della fabbrica B.A.N. e muniti di megafono, risulta smorzata, e anche questo allontana da noi l’ottica di quell’epoca.
Claudio Longhi e la compagnia di attori riescono a traslare una situazione e a far emergere la sua attualità, dando vita a una rappresentazione più leggera del film, nel quale anche il suono si conforma alle sensazioni di tensione trasmesse, con un effetto straniante. Lo spettacolo risulta dinamico: meno violento della pellicola ma altrettanto pieno di significato, è inoltre arricchito di spunti di riflessione dati da diverse reazioni al film ambientate in diverse epoche. Si assiste a un coinvolgimento in più momenti, ad esempio un menestrello suona muovendosi per la platea, il cast si confonde con il pubblico inscenando una discussione sul film, la colonna sonora è eseguita dal vivo, così che la lunga durata (circa tre ore) risulti piacevole. Unica nota critica è che la conoscenza del background risulta essenziale per comprendere tutti i momenti dello spettacolo, ma il regista riesce comunque nell’intento di trasmettere un efficace quadro generale.

La recensione di Simone Medici

La “classe operaia va in Paradiso”, tratto dal celeberrimo film di Elio Petri del 1971, racconta la difficile vita di Lulù Massa, interpretato da Lino Guanciale, un operaio di un’azienda metalmeccanica amato dai padroni che lo utilizzano come modello per stabilire i ritmi ottimali di produzione e allo stesso tempo odiato dai suoi colleghi a causa dei suoi ritmi infernali di lavoro che velocizzano il complessivo ritmo della catena di montaggio.
La regia è di Claudio Longhi che insieme alla sua formidabile compagnia di attori è  riuscito a interpretare e a trasmettere in modo eccezionale le condizioni degli operai in quel periodo.
La sceneggiatura di Elio Petri e Ugo Pirro fa capire fin da subito le condizioni di queste persone in fabbrica: un nastro trasportatore fa scorrere ininterrottamente degli scatoloni che devono essere riempiti dagli operai con una costanza precisissima per non interrompere la catena produttiva.
Tra tutti gli operai spicca Lulù Massa che tiene dei ritmi produttivi inumani fino al giorno che accidentalmente perse un dito, divorato da un macchinario. Da qui la vita di Massa cambia radicalmente, capisce che la sua vita stava dipendendo esclusivamente dalla fabbrica, iniziando a lavorare quando il Sole ancora doveva sorgere e terminando quando questo era già tramontato. Così decide di schierarsi dalla parte dei sindacati che chiedevano ritmi e orari di lavoro più umani.
In pochissimo tempo la situazione nella fabbrica si scalda: vengono indetti scioperi con i quali studenti e operai insieme chiedevano l’abolizione del lavoro a cottimo. Lulù ormai divenuto simbolo di questa protesta viene abbandonato dagli studenti, licenziato dalla fabbrica e allontanato dai suoi compagni che inizialmente non si curano de suo licenziamento.
Per cercare di superare questo momento difficile Lulù cerca aiuto in Militina, interpretata da Franca Penone, un vecchio compagno di lavoro costretto a ritirarsi dal posto di lavoro perché diventato pazzo. E da qui anche lui crede che il suo stato di alienazione all’interno della fabbrica si stia trasformando in pazzia.
Quando tutto sembra che stia volgendo al peggio nella sua vita i suoi ex colleghi riescono a farlo riassumere.
La rappresentazione si svolge su più piani: Michele dell’Utri e Nicola Bortolotti interpretano la figura dei due registi vogliono mettere in scena “la classe operaia va in Paradiso” a teatro e questo aiuta molto a comprendere lo spettacolo a tutti.
La comprensione dello spettacolo potrebbe risultare difficile per chi non ha una minima conoscenza del film o quantomeno del periodo dove questo è collocato: si rischia infatti di non riuscire a cogliere la rappresentazione nel suo insieme della rappresentazione che porta automaticamente a una difficoltà di percezione del messaggio.
Claudio Longhi ha centrato il suo obiettivo, quello di non fare una semplice trasposizione del film a teatro, ma di attualizzare l’argomento che forse ai giorni d’oggi si è un po’ perso.
La composizione nel complesso, seppur inevitabilmente piuttosto lunga a causa della lunghezza della storia (2h e 30 minuti), è stata notevolmente alleggerita sia grazie all’intervento meta teatrale di Simone Tangolo con canzoni cantate e suonate dal vivo, sia grazie all’utilizzo della platea come luogo di recitazione che permette un’immedesimazione da parte dello spettatore.